Intelligenza Artificiale: gli impatti sul business

Recentemente, su invito di Raul Nacamulli, ho lanciato un “Learning Talk” sul blog dell’Università Bicocca di Milano  che prendeva le mosse dalla seguente domanda: la trasformazione digitale crea o distrugge posti di lavoro? 

E’ una domanda che ormai quotidianamente ci si pone a tutti i livelli e, d’altro canto, i dati che la giustificano sono molti. Ad esempio, CBS Insights ha previsto che saranno circa dieci milioni i posti di lavoro persi entro dieci anni a causa dell’Intelligenza Artificiale. Al primo posto cuochi e inservienti, seguiti al secondo dagli addetti alle pulizie e, al terzo, da facchini e magazzinieri. Ma non sono a rischio solo le professioni manuali e i blue collar: molti risparmiatori hanno abbandonato i consulenti finanziari in carne e ossa per affidare le proprie finanze a robo-advisor, mentre Gartner prevede che nel giro di cinque anni ci sarà un robot ogni cinque impiegati. Secondo IBM presto (entro il 2025) avremo anche Amministratori Delegati sostituiti da simulacri. Per alcuni  “meno del 5% delle occupazioni potrà essere completamente automatizzato utilizzando la tecnologia attuale. Tuttavia, il 60 per cento delle occupazioni potrebbe automatizzare il 30 per cento o più delle loro attività”. Non basta: ormai ci sono algoritmi per selezionare il miglior candidato da assumere, promuovere il miglior dipendente, costruire il team più efficiente, individuare il lavoratore improduttivo. Al di là delle implicazioni etiche, la diffusione dell’ Intelligenza Artificiale è tale da imporre il ripensamento in chiave di digitalizzazione di metodi, strumenti e ruoli nell’ambito della Direzione HR e non solo.

A questo quadro a tinte fosche, che sembra quasi, ha osservato qualcuno, la versione 4.0 di un film di Ken Loach, si contrappone la visione di chi sostiene che “i robot non tolgono ma creano lavoro ed è ora che ce ne rendiamo conto”, facendo aggio su analisi come il primo studio territoriale sull’impatto dell’industria 4.0 in Veneto, “che mostra come le aziende digitali creano più posti di lavoro di quelle meno innovative”. Aziende come ComauPhilippsBarilla hanno testimoniato su questo blog come stiano spingendo verso modelli di Industry 4.0, mentre guru come Rosario Sica e David Bevilacqua hanno anticipato la Phygital Enterprise del futuro. Visione tecnoentusiasta che ha forse il suo più celebrato cantore nel co-fondatore di Wired Kevin Kelly, il quale nel suo ultimo libro, L’inevitabile,indica proprio nell’avvento dell’Intelligenza Artificiale nelle sue varie forme l’elemento più significativo della trasformazione digitale in atto. Del resto, non è un caso che, proprio in questi giorni, sia stato firmato l’accordo tra 25 Stati europei, del valore di 1 miliardo, per accelerare sullo sviluppo dell’AI: focus su formazione, occupazione ed etica per colmare il gap con Usa e Cina.

Da che parte dunque ci dobbiamo schierare? Tecnoentusisati o neoluddisti? Forse, il modo migliore per prendere una decisione è quella di capire meglio di cosa stiamo in effetti parlando. Abbiamo quindi chiesto lumi a Enrico Prati, che dal 2013 è all’IFN del CNR a Milano dove si occupa di informazione quantistica e di neuroni artificiali con il Laboratorio I3N del Politecnico di Milano. Dal 2014 è inoltre Visiting Scholar della Waseda University di Tokyo. Ha collaborato con Superquark (RAI1) ma soprattutto nel 2017 ha scritto per EGEA La Mente Artificiale, dove, in maniera semplice e chiara, offre una spiegazione chiara di cosa significa parlare di algoritmi, reti neuronali, computer quantistici: in una parola, Intelligenza Artificiale , appunto.

E.P.: Nel XIX secolo c’era una professione che consisteva nell’andare ad accendere e spegnere i lampioni a olio e poi a gas, che fu resa obsoleta dall’elettricità, ma nessuno oggi accetterebbe di fare a meno di quest’ultima. Si tratta di assicurare una continuità all’impiego dei lavoratori mediante una gestione lungimirante da parte dei Governi, grazie a programmi di formazione per far diventare gli attuali lavoratori delle professioni a rischio i gestori delle nuove tecnologie, oppure prepararli a competenze che le nuove opportunità apriranno. I lampioni elettrici hanno creato il lavoro dell’elettricista, più difficile ma più qualificato di quello del “lampedée”. Questo apre un discorso più ampio: se opporsi al progresso tecnologico o assecondarlo. La società subisce dei traumi a ogni rivoluzione tecnologica, ma oggi possiamo curare malattie di cui i nostri nonni potevano morire, disponiamo di informazione quasi illimitata e possiamo fare il giro del mondo in un giorno. Alla fine è la società stessa che deve trovare il compromesso accettabile tra costi e benefici, a metà strada tra l’entusiasmo incosciente e il luddismo dogmatico.

M.M.: Ineccepibile direi. Ma proviamo ad andare più direttamente al sodo. L’obiettivo è di individuare le 10 cose che un CEO oggi dovrebbe sapere per sfruttare al meglio questa nuova opportunità. Per cui direi che la prima questione è la seguente: quali sono i problemi che l’Intelligenza Artificiale risolve?

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