Tra neoluddismo e realismo, (vedi la prima parte di questo post) la discussione con Nicola Palmarini intorno al suo ultimo libro Boomerang sembrava aver trovato tra noi un punto di accordo. Probabilmente non l’unico, visto come il nostro dialogo ha continuato a svilupparsi, proprio mentre usciva l’ultimo saggio di Rifkin sotto forma di epinicio alla Super Internet.

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One Response to Il Boomerang dei Big Data

  1. Cosimo says:

    Gentili Marco e Nicola,
    intanto grazie per questo dialogo aperto su temi che urgono sul nostro presente e sul nostro futuro in divenire. In questa circostanza, i cd. “big data” (su cui vengo conducendo, da alcuni mesi, ricerche di teoria e pratica) mi inducono a partecipare portando questo contributo. Come ho anticipato a Nicola, mi riprometto di leggere il suo libro, mentre quello di Marco è già per me lettura consolidata. Sulla scorta dell’intervista, ecco alcuni elementi a supporto delle vostre riflessioni.

    Propendo, fatta la necessaria tara dell’odierno hype e affrontato più in profondità, a valutare il fenomeno “big data”altamente significativo, tanto nelle due dimensioni ontologiche (ne cito alcune: sensorializzazione e transduzione dello spazio, imbricazione e sottopercezione del tempo, anticipazione e codificazione del soggetto) quanto in quelle di ricaduta sociale ed economica che si cominciano a intravedere. A fronte di questo, ne ho chiacchierato con Nicola, è importante dare “densità di pensiero” alle nostre riflessioni sulle tecnologie (digitali e non) per capirne senso, orientamento e intenzionalità. Al di là della vulgata corrente, penso che la tecnologia non sia mai neutra, né nelle sue archeologie (quando, dove, chi la origina) e nè nelle sue ingegnerie (come, per quali intenzioni e scopi viene usata), è sempre “situated”. Parlo della tecnologia che agisce e viene agita sui mercati, ma anche di quella presente nelle organizzazioni e nell’enterprise computing. E, come dico spesso, un po’ provocatoriamente, il “software è sempre sociale”. Il punto è, a mio avviso, capire quale forma di “socialità” vorremmo esperire, di quale forma di socialità vorremmo, invece, reclamare il superamento, quali nuovi modelli valoriali, di economia e di società le tecnologie digitali, il software e il codice (e i dati) ci potrebbero aiutare a far emergere.

    Il medesimo può dirsi dei dati. Sul punto di Anderson e della fine della “teoria”, si tratta, naturalmente di una semplificazione che ha stimolato molto i media e i poco avveduti, ma che non dice la complessità di quello che chiamiamo “datum”. Lo ha spiegato molto bene Lisa Gitelman nel saggio “Raw Data is An Oxymoron”. Penso che l’idea e la pratica corrente (ideologizzata) dei big data come tecnologia che ci darebbe -si sostiene- un accesso diretto e im-mediato al Reale rischia di retrodatare il dibattito a tempi teoreticamente meno critici. Su micro e macro, direi sono sempre questione di prospettiva. In modo provocatorio (ma non privo di fondamento), Bruno Latour ha scritto di recente, in merito ai big data e alla capacità di analizzare e navigare tra i dati, che “la parte è sempre più grande del tutto”, mentre il filosofo dell’informazione Floridi suggerisce di guardare agli “small pattern” presenti nei big data. Del micro è rilevante, credo, l’impatto che avrà la sensorializzazione del mondo (automatizzata, continuativa, granulare), del macro la capacità di guardare con una lente “macroscopica” ai fenomeni sociali, organizzativi, ecc… Non più data mining -dice la vulgata- ma “reality mining”, con tentativi arditi, già in atto, di “organizational mining”. Vivremo, credo, con oscillazione dialettica tra micro e macro.

    Oltre alla rilevante questione della privacy e dell’asimmetria informativa, occorrerà, credo, interrogarsi sulla cosiddetta “governamentalità algoritmica”. Ne ho parlato personalmente col Garante dei Dati, Antonello Soro, quando sono stato invitato in una recente sessione con giuristi dedicata proprio a questi temi per portare la mia prospettiva di ricerca. Uno dei nodi che ho posto è stato: proteggiamo solo il “datum” raccolto, o anche e soprattutto le conseguenze della modellizzazione comportamentale che quel dato genererà e la sua capacità di governo, modulazione e orientamento di consumatori e cittadini (anche in situazioni non deliberatamente fraudolente o violanti la protezione dei dati). Qui, insieme al tema della potenza previsionale (probabilisticamente improntata) e della verificazione/verità, personalmente mi interessa anche la questione della governamentalità: i suggerimenti che attraverso le tecnologie di social sorting mi vengono dati sono solo mie azioni semplicemente anticipate, o nell’anticiparle, in realtà, vengono portate all’esistenza? Avrei scelto quel libro o quella vacanza ugualmente (viene solo anticipata nel tempo?) oppure il regime di anticipazione è anche principio di esistenza dell’evento? E, ancora, qual è il confine nella comunicazione microtargettizzata tra personalizzazione e discriminazione?

    Ultimo punto sulle vostre giuste critiche alle dimensione del “managerialismo” (uso l’etichetta di Klikauer) e “customerizzazione” (alla Skàlen). Mi sembrano, entrambe, dimensioni di un medesimo orizzonte di senso, di pensiero e di pratica e, quindi, le vostre prospettive mi sembrano convergere pur nei distinguo. Mi chiedo, se non rischino di far parte, alla fine, del medesimo orizzonte anche le emergenti economie cd. collaborative o di sharing o duepuntozeriste come tentativo lodevole (se non improntate alla riflessione profonda sui paradigmi socioeconomici dominanti e sottostanti) di trovare una via terza tra mercati e gerarchie. Basterà? Ardvisson ha titolato il suo ultimo lavoro “The Ethical Economy” rilanciando e stimolando ulteriormente il dibattito su pubblici produttivi e lavoro immateriale. È quella la strada? Basterà l’infatuazione corrente sul “raccontare storie” o stiamo continuando a eludere il “kernel” della questione, e vale a dire, l’orizzonte di senso del nostro esserci? Attendo di leggere con curiosità il terzo capitolo della vostra intervista :)

    A presto
    Cosimo

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