SHAKESPEARE E IL MANAGEMENT
di Marco Minghetti
Fondatore e Direttore Editoriale della rivista Hamlet, autore del volume “L’impresa shakespeariana”
L’impresa shakespeariana
Se la filosofia occidentale, secondo la celebre definizione datane da Whitehead, non è che una glossa agli scritti di Platone, non sono che note a margine dei capolavori shakespeariani il teatro e la letteratura moderni, nonché la nostra stessa vita. Tale almeno sembra essere il parere di Harold Bloom, che afferma: “Se potessimo concepire un canone universale, multiculturale e polivalente, il suo unico libro essenziale non sarebbe una scrittura, sia essa Bibbia, Corano o testo orientale, ma piuttosto Shakespeare, che è messo in scena e letto ovunque, in ogni lingua e circostanza… Anche per centinaia di milioni che non sono bianchi europei, Shakespeare è un indizio del loro proprio pathos, del loro sentimento di identificazione con i personaggi cui Shakespeare conferì carne e sangue con il proprio linguaggio. Per essi la sua universalità non è storica ma fondamentale; Shakespeare mette sul proprio palcoscenico le loro vite. Nei suoi personaggi, essi contemplano le proprie angoscie e le proprie fantasie e con esse si confrontano”. Fra tutte le discutibili opinioni espresse da Bloom, questa mi sembra una delle più incontrovertibili. Applicata al mondo delle aziende (anche se Bloom non sarebbe d’accordo) ci consente di trovare una chiave di interpretazione a tutti i fenomeni che in essa si determinano: nel confronto con quella che potremmo chiamare “l’impresa shakespeariana” possiamo meglio comprendere la realtà delle singole organizzazioni in cui operiamo.
Alla luce di tali considerazioni, si può meglio comprendere come mai nel marzo del 1997 usciva il primo numero di Hamlet, rivista bimestrale dell’Associazione Italiana per la Direzione del Personale (AIDP), con “la finalità essenziale”, scrivevo nel primo Editoriale, “di alimentare il dibattito su politiche, metodi e strumenti mirati alla valorizzazione delle persone in azienda”. La sfida che si intendeva accettare era quella di dare una più ampia diffusione alla riflessione su problemi che riguardano direttamente tutti coloro che operano dentro le aziende (tecnici, manager, dipendenti in generale) o a fianco di esse (consulenti, fornitori, sindacalisti, docenti universitari, studenti e neolaureati, rappresentanti delle istituzioni, giornalisti, politici), formulandoli e discutendoli da un punto di vista innovativo. La questione che si poneva era dunque di trovare un linguaggio e una prospettiva teorica adatti a catturare l’attenzione non solo degli “addetti ai lavori”, ma di un pubblico il più possibile vasto e diversificato; la soluzione trovata consistette nel tentativo di illuminare le molteplici facce della vita d’impresa, puntando in ogni numero su una di esse i riflettori di qualificati contributi provenienti dalle più diverse discipline umanistiche e scientifiche, che tuttavia trovassero nel riferimento al corpus shakespeariano l’ideale comune denominatore.
Allora cercare in Shakespeare una chiave di lettura per temi discussi quasi esclusivamente nell’ambito del cosiddetto “scientific management” poteva sembrare una eresia: il tentativo poi di analizzare la realtà imprenditoriale con strumenti e apporti provenienti da filoni culturali eterogenei e anche all’apparenza lontanissimi dalle questioni quotidianamente affrontate nelle imprese (dalla letteratura al cinema, dall’arte figurativa alla metafisica, dalla filosofia politica alla fantascienza), poteva apparire come una vera e propria follia. Giunti oggi al termine di questa esperienza (l’ultimo numero della rivista è uscito nel luglio del 2003), si può affermare che il metodo nascosto dietro questa follia ha però dato frutti interessanti e concreti.
In primo luogo si è anticipata una delle più recenti tendenze affermatesi nel panorama editoriale internazionale: la sistematica rilettura di Shakespeare in chiave manageriale (o la lettura shakespeariana dell’impresa). La strada che collega il Grande Bardo al management è stata ufficialmente aperta da Kenneth Adelman, autore, insieme all’ex CEO Loockheed Norman R. Augustine, del libro Shakespeare in Charge : The Bard’s Guide to Leading and Succeeding on the Business Stage (edito nel 1999, ovvero due anni dopo la prima uscita di Hamlet). Successivamente una vera e propria Shakespeare-mania ha cominciato a pervadere il mondo manageriale anglosassone: sono usciti volumi come Power Plays : Shakespeare’s Lessons in Leadership and Management di John O. Whitney (giugno 2000), anticipato di qualche mese dal testo di Paul Corrigan, Shakespeare on Management. Leadership lessons for today’s managers, di cui ETAS ha pubblicato la versione italiana.
Rispetto a questi testi, tuttavia, ben diverso appare il caso di Hamlet , che pur avendo effettivamente anticipato i tempi, sviluppando nell’arco di quasi sette anni, un cammino di riflessione manageriale integralmente “shakesperiano”, fin dall’inizio intendeva andare oltre l’approccio proposto dai tre esperti citati. Essi infatti dal genio della drammaturgia inglese traggono essenzialmente degli insegnamenti ancora attuali sulla questione della leadership. E’ estremamente significativo che nessuno dei tre studiosi sopra ricordati, che pure analizzano, spesso in maniera brillante, opere come Riccardo III, Giulio Cesare, Macbeth, Re Lear e, soprattutto, Enrico V (l’unico leader di successo di tutto il corpus shakespeariano), trascurino quasi del tutto l’Amleto, da cui invece ritengo si possano trarre lezioni altrettanto significative, ma che è meno agevole da trattare in termini di “leadership lessons”, immediatamente comprensibili e traducibili in pratica dai top manager.
Pur concordando sull’utilità di questo tipo di approfondimento, io credo che si possa guardare a Shakespeare in una ben più articolata prospettiva. L’Autore che si pone al centro del Canone letterario occidentale costituisce una inesauribile fonte di ispirazione per conoscere meglio noi stessi, le organizzazioni in cui lavoriamo, le società in cui viviamo. Come sostiene Harold Bloom quando scrive: “Qui ci troviamo di fronte alle insuperabili difficoltà della più idiosincratica forza di Shakespeare: chiunque tu sia e ovunque ti trovi, egli è sempre davanti a te. Ti rende anacronistico perchè ti contiene; non puoi sussumerlo”.
Ma Bloom limita le sue affermazioni al campo letterario: più precisamente, poiché, ha affermato Oscar Wilde, “l’arte è del tutto inutile”, a suo avviso è un errore credere che lo studio della letteratura possa diventare una base per l’educazione democratica o il miglioramento sociale. Io ritengo invece si possa andare oltre e che ogni nostra esperienza quotidiana, sia all’interno che al di fuori dei luoghi di lavoro, possa essere letta con immenso profitto attraverso gli strumenti concettuali messi a disposizione dalla universale sapienza shakespeariana e dalla grande letteratura di tutti i tempi. “Il vero uso di Shakespeare, di Cervantes, di Omero e di Dante, di Chaucer o di Rabelais, consiste nell’aumentare la propria crescente interiorità”: giustissimo, ma la nostra crescita interiore dipende dalla capacità di dialogare non solo con la nostra mente, come vorrebbe il solispsistico Bloom, ma anche con quella degli altri.
Seguendo questa via, è possibile attualizzare il concetto di cittadinanza organizzativa come testo, aperto ad una pluralità di letture, di cui i singoli individui operanti in azienda sono gli autori , in quanto “riflettono e agiscono sul significato del costruire una vita comune a partire dal loro essere persone concrete, che appartengono a specifici gruppi sociali, che hanno agende politiche diverse, interessi specifici e sistemi di significati contrastanti per gli stessi concetti”(Gherardi). L’idea al fondo dell’esperienza di Hamlet è che “l’impresa di persone” possa scaturire solo dal confronto fra tutti coloro che direttamente e indirettamente, a partire da ruoli istituzionali, politici, sociali e organizzativi differenti, o addirittura opposti, influiscono sulla determinazione dei modelli organizzativi, dei metodi e processi di lavoro, degli strumenti di gestione e controllo. La stessa Gherardi, in molti suoi testi, preferisce indulgere più sugli aspetti di contrapposizione (interessi del management contro quelli degli operai, delle donne contro quelli degli uomini, in generale dei “forti” contro “i deboli”) che non sulla possibilità di convergere su un terreno comune di dialogo e riflessione. Ma così facendo rende poco credibile la sua stessa proposta basata sul quel concetto di cittadinanza come “testo aperto ad una pluralità di letture” su cui invece concordo, ma per rendere agibile il quale credo si debba insistere su due aspetti.
Il primo: nessuno di noi in azienda ha una sola identità, ma sempre più siamo nello stesso tempo dipendenti, azionisti, responsabili di altre persone e sottoposti a nostra volta a dei superiori, magari diversi fra loro (ad esempio ad un responsabile di funzione e ad uno di progetto). Come insegna Shakespeare, questo è vero anche nella vita extra-professionale. Basta guardare con attenzione ad uno qualsiasi dei suoi personaggi per scoprire come nessuno di essi sia mono-dimensionale. Prendiamo il caso di Prospero, il protagonista della Tempesta, sviluppando alcune indicazioni fornite da Angela Locatelli in L’eloquenza e gli incantesimi. Prospero viene a definirsi già nell’antefatto come Duca ma anche come Sapiente: nel primo ruolo, in teoria quello di maggior potere, riesce perdente, mentre trionferà nel secondo mettendo a frutto le sue innate capacità, le conoscenze acquisite e soprattutto le sue più profonde motivazioni. Non solo, ma nell’isola in cui si svolge l’azione drammatica vera e propria egli assume altre qualificazioni: di Padre (in questa veste segue le vicende amorose della figlia Miranda), di Padrone (dell’isola ed in particolare degli spiriti Ariel e Calibano), di Mago (egli è il vero demiurgo del mondo fantastico in cui si svolge il dramma che, come la tempesta della prima scena, è interamente creato da Prospero. Il che consente l’apertura del testo a numerosi livelli di lettura: scatta l’identificazione fra Prospero e lo stesso Shakespeare; si propone il tema del rapporto fra vita reale e teatro; la storia narrata si eleva sul piano metafisico rimettendo in questione il classico dilemma Realtà/Apparenza –“We are such stuff as the dreams are made on; and our little life is rounded with a sleep”). Al termine, nota Locatelli, “il sapere è diventato, nell’isola-palcoscenico, l’unico e più forte potere”: Prospero conclude così la sua vicenda tornando ad essere Duca, ma con ben altra consapevolezza e forza rispetto all’inizio del dramma. Occupando dunque, con alterna fortuna/abilità, ruoli differenti, egli esplica a pieno la propria personalità.
Lo stesso accade ad ognuno di noi. Possiamo essere deboli dal punto di vista della gerarchia, ma fortissimi in quanto detentori di un know how indispensabile per mantenere il vantaggio competitivo dell’impresa. Possiamo essere responsabili di una unità amministrativa o logistica in una azienda privata oggi, consulenti di strategia aziendale domani, direttori del personale in qualche settore della Pubblica Amministrazione dopodomani. Per valorizzare al massimo la potenzialità dei ruoli che possiamo occupare occorre dunque essere “folli” nel senso amletico, entrando ed uscendo continuamente da essi, a volte portando in testa due o più cappelli contemporaneamente. Se riesco ad “ospitare” le ragioni del mio fornitore anche quando mi sembrano insostenibili, forse riuscirò meglio a capire le contestazioni di chi non è soddisfatto dei servizi che io fornisco all’interno della mia azienda ritenendoli inappuntabili. Eccetera, eccetera, eccetera.
Vi è poi un secondo aspetto da considerare: anche se vogliamo fissare l’attenzione su singoli ruoli, non credo che sia produttivo continuare ad insistere unicamente sulla contrapposizione di interessi che rende impossibile la comprensione reciproca, come fa Gherardi quando parla, ad esempio, dei rapporti fra management e operai, enfatizzando l’ipocrisia caratteristica delle comunicazioni top down del primo e la costante inossidabile diffidenza dei secondi. Non nego che questa sia una situazione frequentissima, tanto che la abbiamo denunciata non solo su uno specifico numero di Hamlet (Ipocrisia o sincerità?), ma in molti Editoriali. Il punto è che alla pars destruens deve accompagnarsi una pars costruens, che potrebbe essere costituita dal proporre, come modello di comunicazione fra top management e persone operanti in azienda, quello realizzato da Sancho Pancia e Don Chischiotte. Secondo il fondamentale insegnamento di Harold Bloom, il grande contributo portato da Cervantes al “Canone Occidentale” (al centro del quale si pone Shakespeare) è proprio definito dall’interazione fra due personaggi connotati da rapporti gerarchici formali che determinano in teoria la sottomissione dell’uno all’altro, ma che vengono sostanzialmente capovolti ogni qual volta il realismo di Sancio, il suo “know how”, la sua “competenza” del reale, lo richieda.
Il meraviglioso del loro rapporto sta poi nel fatto che, partendo da punti di vista totalmente diversi, il pragmatismo terra terra di Sancio, l’idealismo eroico di Don Chischiotte, i due finiscono per completarsi e arricchirsi reciprocamente, restando uniti anche durante le disavventure più tremende, che possono essere causate dalla strampalata “vision” del Cavaliere come dalla rozzezza dello Scudiero, grazie ad un dialogo continuo e vivacissimo da cui esce vincitore a volte l’uno a volte l’altro: sempre però con il risultato di avvantaggiare lo sviluppo armonioso della personalità di entrambi. “Sia Don Chischiotte che Sancio Panza sono l’un per l’altro conversatori ideali: mutano prestandosi vicendevole orecchio. In Shakespeare il mutamento deriva dall’ascolto di se stessi e dalla riflessione sulle implicazioni di ciò che il personaggio ha udito (e quindi) non ci sono paralleli degli scambi tra il Cavaliere e Sancio, perché i suoi amici e amanti mai si prestano davvero orecchio a vicenda”. Credo che Bloom qui esageri forse un po’ artificiosamente le proprie valutazioni. Resta senz’altro esatta però l’affermazione secondo cui “l’individualità in Shakespeare è senza paragoni, ma richiede dei costi enormi. L’egoismo cervantino invece è sempre caratterizzato dal libero rapporto tra Sancio e il Cavaliere”. Ammesso e non concesso che i personaggi di Shakespeare “alla fine gloriosamente si spengono nell’atmosfera di un’interiore solitudine”, certamente “Don Chischiotte è salvato da Sancio, e Sancio lo è dal Cavaliere”. Ecco il vero “management dell’ascolto”!
Nello stesso tempo, l’impresa non è “un mondo a parte”: essa nasce e si sviluppa in un contesto socioculturale assai più ampio, da cui trae senso e per il quale diviene a sua volta fonte di nuovi significati. Per questo motivo con Hamlet si vuole mostrare come non solo la letteratura, ma anche le altre varie espressioni dello spirito umano – la pittura o la filosofia o la cinematografia – possono servire sia quali terreni imparziali su cui fare dialogare le differenti opinioni relative all’essere e al divenire delle imprese, sia come “lenti d’ingrandimento” che consentano di guardare all’azienda (nel suo insieme, nei suoi aspetti particolari e nei suoi rapporti con l’esterno) cogliendone, nel limite del possibile, le sfaccettate valenze, i numerosissimi e forse infiniti livelli di lettura. La speranza è che dall’incontro di esperienze e punti di vista anche molto lontani fra loro si possa pervenire ad un arricchimento complessivo di tutti coloro che partecipano a questa conversazione. Ecco perché ogni numero monografico della rivista, che si presenta come un elegante e agile fascicoletto di una cinquantina di pagine formato magazine, pur trattando argomenti generalmente scelti fra quelli più in voga nella letteratura manageriale, li affronta con uno spirito ben diverso.
In Hamlet, l’Editoriale di apertura prospetta le ambiguità implicite, le contraddizioni spesso inespresse, le questioni sollevate di volta in volta da un elemento del molteplice insieme di discipline/funzioni (lo sviluppo organizzativo, ma anche il knowledge management, la formazione, la comunicazione d’impresa, e via dicendo) mirate alla valorizzazione delle persone in azienda, che poi i successivi interventi ospitati in ogni volumetto qualificano, interpretano, discutono. Fin dall’inizio pertanto ognuno di tali elementi è presentato non seguendo rigide modalità didattiche o meramente didascaliche, bensì problematicamente, sotto forma di dilemma, in sintonia con il carattere del Principe danese da cui la testata trae la sua ispirazione: abbiamo così ad esempio Achab o Bartebly?, dedicato alla motivazione e al commitment diffuso a partire da una riflessione su due personaggi melvilliani ugualmente controversi, ma, almeno all’apparenza, per opposti motivi; Blade Runner o Folletto?, che, fra incubi dickiani e sogni shakespeariani, apre la discussione sul ruolo, le caratteristiche e…la necessità? del Direttore del Personale nelle aziende contemporanee; Stanziali o viandanti?, dove se ne traccia un possibile profilo etico, passando dalle parti di Omero, James Joyce, John Ronald Reuel Tolkien e Milan Kundera. Questo volume, realizzato in occasione del Congresso europeo dell’EAPM (European Association of Personnel Management, da verificare ndr) del 2003, raccoglie appunto la serie degli Editoriali più significativi e le meravigliose copertine originali realizzate da Milo Manara per illustrarli.
Rileggendoli in sequenza appare con molta evidenza il percorso evolutivo seguito: dai primi brevissimi e ancora fortemente influenzati da stilemi tipici del linguaggio in uso nella letturatura manageriale classica, fino agli ultimi, sempre più ariosi e in cui l’iniziale intuizione di fondere armoniosamente contributi provenienti da ambiti disciplinari diversi viene espressa più compiutamente (pur mantenendo lo studio di Shakespeare la preminenza su tutti). A parte il giudizio sulla loro comicità (per quanto potrebbe rivelarsi corretto a dispetto degli intenti di questi scritti, che al massimo aspirano all’ironia: dunque se di comicità si può parlare, è purtroppo del tutto involontaria) potrebbe essere vero per i materiali qui raccolti quanto scriveva Ranieri Carano a proposito dei fumetti di Jacovitti: “Contrariamente a quanto pensano certi antichi estimatori del primo Jacovitti, la relativa secchezza delle prime storie non si addice all’istinto logorroico dell’autore. Jac ha bisogno di spazio, di scene affollate, di grande masse corali cui appiccicare miriadi di nuvolette. Dal parossismo, dal rincorrersi di voci e battute, scoppia una tempesta comica di notevole effetto, dove si perde e quasi sempre si annulla la dubbia efficacia della singola battuta”.
Nonostante le differenze esistenti fra i primi e gli ultimi Editoriali in termini di lunghezza, si possono tuttavia individuare alcuni elementi di continuità che giustificano l’uso dell’aggettivo “evolutivo” utilizzato per definire il percorso da essi tracciato. Potremmo riassumerli nella loro connotazione più tipicamente shakespeariana: il gioco di specchi che si viene a creare fra i singoli contributi, come pure fra le sottotrame che si dipanano in ciascuno di essi e che, come fiumi carsici, appaiono e ricompaiono a distanza di tempo. L’azienda apollinea trova il suo contraltare in quella dionisiaca; la qualità statica in quella dinamica; i cloni nei mutanti; l’esperienza nel potenziale; Puck in Rick Deckard; Gulliver in Napoleone; i mezzi nei messaggi; le regole nei valori: ciascun elemento di queste coppie, solo apparentemente conflittuali, richiama l’altro. Inoltre, parafrasando quanto Savater osserva a proposito delle duplicazioni che caratterizzano l’opera di Borges, possiamo affermare che ognuno di questi termini si definisce in relazione all’altro, anzi tutti gli attributi dell’uno corrispondono all’altro: sciogliendo illusorie antitesi, la loro congiunzione origina non ossimori, ma paradossi. L’importanza di questo gioco di specchi è proprio sottolineato dal continuo confronto con autori che su di esso hanno costruito le proprie visioni del mondo: Jorge Louis Borges, abbiamo detto, ma anche Lewis Carrol, Milan Kundera o Philiph K. Dick.
Apollo e Dioniso
In questo quadro si capisce allora perché ne L’impresa shakespeariana, non casualmente si parte da quella distinzione, di matrice squisitamente filosofica, fra apollineo e dionisiaco che ho avuto la soddisfazione di ritrovare anche nel Prologo del bellissimo ultimo saggio di Citati dedicato all’Odissea e intitolato La mente colorata (altra analogia, se si considera che L’impresa shakespeariana è stato descritto come un “romanzo imprenditoriale a colori”). In una intervista Citati ha dichiarato: “«La più famosa opposizione di dei greci, immaginata da Nietzsche, è quella tra Apollo e Dioniso, la forma e la frenesia, che si conciliavano però dividendosi a Delfi il regno della profezia…Io penso che gli dei antichi non siano mai morti. L´apollineo, il dionisiaco e l´ermetico sono categorie ancora valide per noi. “ Al di là delle considerazioni puramente letterarie che sviluppa su questa base Citati, nel volume patrocinato dall’EAPM si mostra come sia fruttuoso applicare queste categorie anche al mondo aziendale: da qui nascono, fra le altre, le differenze fra Regole e Valori, Cloni e Mutanti, Numeri e Individui, Qualità Statica e Qualità Dinamica, che si intrecciano nel corso dell’opera e che, come l’apollineo e il dionisiaco si fondono nell’ermetico, trovano di volta in volta delle strade per dare vita non a sterili antitesi, ma a paradossi, che stimolano il dialogo e il confronto positivo.
Vediamo meglio di cosa si tratta, facendo qualche esempio. Sono trascorsi più di venti anni – ricordo nel volume – da quando Charles Handy ha dato per la prima volta alle stampe quello che è divenuto un classico della letteratura manageriale: Gli dei del management. In questo testo gli stili di organizzazione e cultura aziendale vengono ricondotti a quattro archetipi, paradigmaticamente identificati in quattro dei della mitologia greca. Giove rappresenta l’imprenditore dinamico che crea imprese e lancia nuove iniziative, decide con rapidità e comunica con efficacia; Apollo, dio dell’ordine e della burocrazia, diviene il simbolo della strategia basata non sulla personalità, ma sulla precisa definizione dei compiti; Atena, dea dell’operatività, fonda il suo potere esclusivo sull’esperienza; Dioniso è il dio preferito dagli artisti e dai professionisti, da coloro che preferiscono la creatività alla standardizzazione, la diversità all’omologazione, la valorizzazione delle competenze individuali ad una efficienza fondata sulla messa a punto di una macchina aziendale perfetta, forse, ma certamente anonima.
Il testo di Handy analizza le articolazioni della realtà imprenditoriale alla luce dell’importanza che ciascuna di queste divinità manageriali può assumere al suo interno; ma, via via che si prosegue nella lettura, Giove e Atena paiono sempre più come divinità di secondaria importanza nel pantheon aziendale, mentre appare chiaro che la vera contrapposizione è fra il modello apollineo (cui sono sostanzialmente assimilabili quelli gioviano e atenaico), da una parte, e quello dionisiaco, dall’altra.
In particolare la prospettiva teorica sopra ricordata si applica bene ai veri e propri enigmi che il tanto dibattuto tema della flessibilità propone. Senza arrivare all’elogio del caos celebrato da Tom Peters in Liberation Management, già nel 1978 Handy denunciava il delinearsi di una contrapposizione ulteriormente rafforzatasi negli anni successivi. Gli indirizzi aziendali che tendono a privilegiare la ricerca di una sempre maggiore dimensione e coerenza (vedi alle voci focalizzazione sul core-business, tramite fusioni/accorpamenti/privatizzazioni, e business process reengineering) sono infatti, scrive Handy, “inevitabilmente destinati a scontrarsi con gli indirizzi individuali (tesi verso maggiori opportunità di espressione e scelte personali)…E’ un conflitto che Apollo non può vincere. Se le aziende vogliono sopravvivere, devono adattare la loro filosofia manageriale ad un orientamento più consono ai bisogni, alle aspirazioni e agli atteggiamenti degli individui. Nel nuovo mix di dei che ne risulterà, Apollo sarà meno dominante e meno disumano.”
L’attualità delle profezie di Handy è, credo, sotto gli occhi di tutti: con la differenza che, nonostante la tanta retorica fatta un po’ a tutti i livelli sull’importanza cruciale dei “lavoratori della conoscenza”, della formazione continua, dell’”autosviluppo” dei dipendenti, che si è generata proprio a partire dagli assunti teorici proposti da Delors e per favorire la traduzione pratica dei quali l’azienda dovrebbe acquisire connotati sempre più dionisiaci, il modello apollineo continua a prevalere, benché mostrando di essere sempre più in difficoltà: come si ricava da un’altra contraddizione dell’azienda contemporanea, quella che abbiamo riportato all’opposizione fra “cloni” e “mutanti”.
Per comprenderla, basta pensare al fatto che da qualche anno le grandi società di consulenza internazionale hanno introdotto l’idea secondo cui sarebbe in atto la “guerra dei talenti” e, grazie ad un abile marketing di questa moda manageriale, stanno vendendo alle aziende una serie di servizi (strumenti di selezione,politiche di retention, strumenti per l’individuazione degli alti potenziali, eccetera) finalizzati ad attrarre e trattenere le risorse migliori. Ma se andiamo poi a vedere la realtà delle cose, assistiamo al fallimento di molti dei programmi, spesso costosi, avviati dalle imprese in questo campo. La ragione va ricercata proprio nel fatto che esse, in gran parte, sono ancora rigidamente apollinee e pertanto si fondano su modelli organizzativi e gestionali adeguati non a valorizzare gli individui di talento, le personalità originali, ma a trattare le persone alla stregua di cloni, ripetitori razionali di compiti e mansioni.
Attenzione: l’adesione a questo modello organizzativo e culturale non è solo dei manager, ma permea di sé tutti coloro che operano nel mondo imprenditoriale. Non a caso sta assumendo tanto rilievo il tema del ”mobbing”: chi osa differenziarsi viene immediatamente “mobbizzato”, dai superiori, certo, ma spesso con la connivenza dei colleghi. In cambio della propria individualità le persone sperano, spesso invano, di ottenere la sicurezza (non a caso Apollo era anche il protettore delle pecore e dei bambini, osserva Handy), derivante appunto dalla omologazione di tutti a codici di comportamento chiaramente definiti e sempre uguali; succede così che anche i prodotti proposti da molte organizzazioni al cliente si ispirino a questo senso di (falsa) sicurezza. Non mi riferisco solo alle imprese tradizionali o a bassa tecnologia, come nel caso di MacDonald: si può essere enormemente sviluppati sul piano tecnologico ed essere nello stesso tempo culturalmente immersi fino al collo nella “old economy”. Si pensi ai programmi televisivi, indifferentemente RAI o Mediaset, italiani o internazionali. Cosa c’è di più tecnologicamente avanzato, di più “tech-net”, di più naturalmente affine alla realtà virtuale, manifesto di una contemporaneità fondata sulle telecomunicazioni di massa, della televisione? E cosa di più banale, ripetitivo, impersonale? Chi ormai sa distinguere un presentatore da un altro, una “velina” (sia nel tradizionale senso di comunicato stampa, sia in quello più innovativo e popolare introdotto da Antonio Ricci in Striscia la Notizia) da un’altra, un palinsesto da un altro, una trasmissione da un’altra? Se avessimo robot invece che esseri umani a pensare, dirigere, rappresentare i programmi televisivi, chi se ne accorgerebbe? E non intendo solo riferirmi a programmi dall’analogo contenuto (quiz, canzonette, sport), ma anche a programmi in teoria diversi fra loro: la clonizzazione televisiva è ormai arrivata ad un punto tale che, come ha scritto Saul Bellow, in TV ormai “è impossibile distinguere una guerra da una partita di baseball”.
Il fatto è che nella coscienza collettiva stenta a diffondersi l’insofferenza verso le modalità di controllo sociale implicite nella programmazione televisiva e, in generale, nell’iceberg della cultura “apollinea” attuale, di cui la “clonizzazione” biologica di animali, piante ed esseri umani, già anticipata in letteratura da Huxley e ormai divenuta cronaca quotidiana, non è che la inevitabile punta emergente. Si innesca così un circolo vizioso per il quale siamo sempre più incapaci di confrontarci con le nuove esigenze dell’epoca attuale: e meno comprendiamo la contemporaneità, più la respingiamo, autocondannandoci così a seguire il destino del Titanic: un tragico (e più spesso tragicomico, poiché dove non c’è consapevolezza non può esserci neppure vera tragedia) naufragio della nostra personalità individuale nel mare dell’indifferenziazione. Cloroformizzati come siamo tutti da un clima socioculturale che punta all’obnubilamento di massa, alla omogeneizzazione delle intelligenze mirata unicamente all’aumento dell’audience (e degli introiti pubblicitari), solo rare volte, in un barlume di lucidità magari indotto da una buona lettura, riusciamo a cogliere e condividere l’orrore verso una organizzazione della vita associata che ci rende non differenti dagli androidi descritti da Philiph K. Dick (a cui nel volume si dedica più di un passaggio e l’intero capitolo intitolato Blade Runner o Folletto?). “Ciò che atterriva Dick”, ha osservato Enzo Di Mauro, “era la mancanza di sottigliezza della mente androide, la sua incapacità di concepire l’eccezione alla regola, la tendenza a ripetere una stessa risposta all’infinito, non diversamente da un lampeggiante”. Dick, simile in questo a Orwell, reagisce alle distopie totalizzanti, che si declinano anche nell’azienda apollinea, ma a differenza di Orwell cerca delle alternative: “come Baudelaire, anche Dick sente necessaria e cruciale l’attrazione per il moderno che verrà… per un futuro non come luogo (le utopie e le distopie sono prima di tutto dei luoghi: Repubbliche, città ideali, nuovi mondi, cui abbiamo dedicato l’ultimo numero di Hamlet, quello di settembre intitolato appunto Lagado o Utopia?), ma come <evento>”.
“Evento”: questa è la parola chiave che determina il passaggio dalla cultura apollinea a quella dionisiaca, così come dalla Qualità Statica a quella Dinamica. La Qualità Dinamica è un “evento”, secondo la definizione di Pirsig (Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, Lila) che abbiamo a suo tempo accolto in Hamlet: è il manifestarsi di un cambiamento radicale e positivo, la novità sorprendente che percepiamo per la prima volta, la sinapsi che determina un nuovo orientamento delle nostre mappe mentali, il salto concettuale che ci fa acquisire nuovi “paradigmi” per leggere la realtà, la lente che ci fa scoprire nuovi territori, nuovi orizzonti, nuove visioni, nuove possibilità esistenziali.
Al giorno d’oggi, le imprese “di cloni” stanno sbandando paurosamente sotto il contraccolpo enorme di una rivoluzione tale appunto da determinarne il passaggio ad uno “status ontologico” di natura marcatamente dionisiaca: una natura, come insegna Handy, che è l’esatto opposto di quella apollinea, la quale funziona solo fino a quando si può ipotizzare “che lo ieri sarà identico al domani”. E’ una rivoluzione cui quasi sempre le aziende cercano di opporsi soprattutto perché, se in un contesto apollineo “l’individuo aiuta l’azienda ad raggiungere i suoi scopi”, l’azienda dionisiaca è “vissuta come strumento per raggiungere i fini individuali.” La rivoluzione a cui mi riferisco è naturalmente quella portata da Internet, la cui essenza risiede nella possibilità di essere interattivi: col mezzo, con se stessi, con gli altri.
“La vera, profonda rivoluzione della Rete”, ha osservato Carlo Massarini, “è la sua rinnovabilità, il suo essere in tempo reale, sempre lì, pronta a essere modificata, trasformata, innovata, mutata. E’ la mutazione che disorienta, spaventa, sfugge a ogni tentativo di essere cristallizzata.” E’ questo che rende la “Tech-net age” incomprensibile ai più. “E’ l’insostenibile immaterialità della mutazione di un sistema che un attimo dopo è già diverso, che si evolve velocemente e senza ritorni.” Ciò significa che nell’azienda dionisiaca non servono più i cloni ricercati con le norme spersonalizzanti dettate dai vecchi manuali di selezione, ma degli individui originali in grado di ingenerare Qualità Dinamica sotto forma di “eventi”, ovvero cambiamenti veloci, continui, immateriali, passando quindi attraverso la costante modificazione delle proprie conoscenze, saperi, convinzioni, insomma, di sé stessi: in una parola, alle nuove imprese occorrono dei mutanti. Nel volume L’impresa shakespeariana il capitolo centrale non a caso è dedicato ad analizzare, sulla base di alcune illuminanti intuizioni di Stephen King, queste tipologie di mutanti. Ma quello che qui importa sottolineare è che il primo di questi mutanti aziendali deve essere il Direttore del Personale, che invece oggi è ancora lontanissimo da questo modello e anzi si può identificare talvolta perfino con il suo opposto: il “Blade Runner”, il “cacciatore di mutanti”.
Egli dovrebbe invece trovare nella proteiforme figura di Ulisse un archetipo ideale di riferimento, che, non casualmente, è anche il protagonista del saggio di Citati che ricordavo in apertura. La descrizione che egli ne fa è perfettamente complementare all’immagine del manager “mutante” che abbiamo proposto tante volte su Hamlet e ne suggella alcuni elementi che abbiamo anche elencato ne L’impresa shakespeariana: l’importanza della mobilità, del “nomadismo”, la passionalità, la capacità narrativa, indispensabile per “dare senso” alla vita aziendale. Da questi tratti scende un’etica, che sulla scorta di Galimberti, abbiamo affermato essere un etica “della menzogna”, non intesa nel senso della moderna doppiezza, ma come tensione a penetrare i molteplici livelli di realtà del mondo: “Ulisse che– scrive Citati – dice spesso la verità ma preferisce la finzione e, come ogni narratore, predilige i trucchi e le maschere… è il signore della metamorfosi: si maschera e si trasforma come gli dei, e soprattutto Proteo, il suo equivalente nelle acque originarie, che in pochi istanti diventa leone e serpente e pantera e cinghiale e albero e acqua. Ora si camuffa come un servo per scoprire i segreti di Troia: ora diventa mendico, ora un´opera d´arte tra le mani di Atena: ora eroe epico; ora interprete dei sogni. Nessuno è più mobile di lui. Persino i suoi capelli cambiano: ora biondi ora scuri come il giacinto”.
L’abilità ad anticipare i mutamenti del mondo circostante del moderno Ulisse manageriale non deve però essere al servizio di un “trasformismo” servile, o, come accade nel Troilo e Cressida di Shakespeare, di una “Ragion di stato” sprezzante dei diritti individuali, ma essere finalizzato alla continua ricerca di un dialogo fondato su onestà ed integrità nei rapporti con tutti gli stakeholders, a partire dai più importanti: coloro che prestano la propria opera professionale all’interno dell’impresa. E’ questo l’unico terreno su cui può crescere l’albero della conoscenza, i cui frutti oggi sono indispensabili, anche se per farli maturare occorre un lavoro impegnativo e faticoso. Come ha scritto Carlo Magris, “credere che la conoscenza sia il risultato di una merenda non prevista, anziché di una paziente ricerca, non è molto intelligente”.
Volendo traslare questo concetto in termini manageriali, potremmo dire che operare con assiduità allo sviluppo di una politica aziendale per le risorse umane fondata sulla della acquisizione, diffusione, sviluppo della conoscenza, inevitabilmente quindi incentrata sulla valorizzazione integrale della persona che di tale conoscenza è portatrice, è essenziale, anche se di per sé non costituisce la bacchetta magica per risolvere qualunque problema e superare ogni difficoltà. Sono tuttavia convinto che lavorando in questa direzione tutti insieme, azienda ed organizzazioni sindacali, si possa almeno assicurare competitività, crescita e, quindi, in ultima istanza, occupazione. Jacques Delors, in occasione del conferimento della laurea honoris causa in Giurisprudenza durante le celebrazioni del IX centenario dell’Università di Bologna nel giugno scorso, ha affermato che “un progetto comune e la fiducia reciproca sono alla base della costruzione europea”. Io credo che lo stesso si possa dire per quanto riguarda il contesto imprenditoriale, pur nella consapevolezza che persino un tale impegno condiviso è insufficiente per assurgere ad una condizione totalmente paradisiaca: considerato anche che, come ha osservato il sociologo Domenico De Masi, esistono tanti modelli di Paradiso, in relazione alle diverse culture e epoche storiche, ma nessuno ha mai immaginato un Paradiso in cui si lavora.
Il resto è silenzio?
Resta da chiedersi se sarà possibile in futuro immaginare una nuova iniziativa che potrà proseguire sulla strada tracciata da Hamlet, con una linea editoriale che possa effettivamente continuare ad aggregare l’interesse del mondo delle imprese facendo leva sulla esperienza fatta. In particolare, occorre verificare se Hamlet ha, anche in prospettiva futura, il potere “della voce che si leva distinta e riconoscibile nel rumore, venendo captata e ascoltata da uno specifico pubblico”. In una parola, se si contraddistingue per quello che Piero Trupia ha chiamato “potere di convocazione”, caratteristico di “coloro che attivano la comunicazione di altri…in primo luogo, il proprio interlocutore, poi il gruppo dei prossimi, infine, l’universo dei lontani e, idealmente, tutta la comunità umana, ciò che avviene per i grandi convocatori: Kennedy, Mandela, Teresa di Calcutta, Giovanni Paolo II”. Grande esempi di convocatori li troviamo in letteratura: notissimo in questo senso è l’Antonio del Giulio Cesare shakespeariano, alla cui chiamata alla rivolta sul corpo di Cesare rispondono “Tutti”, come precisa il testo.
Premessa necessaria all’effettuazione di questa verifica è la distinzione, proposta da Trupia, fra fatti e discorsi: “la tentazione fattualistica – dare un valore determinante ai fatti; dare loro un significato univoco; “solo i fatti contano”; “guardiamo ai fatti” – è sempre presente e mai come nei momenti di crisi è attiva….La tentazione fattualistica riposa sulla convinzione della potenza di ciò che è dato, che esiste oggettivamente, per sé, quali che siano i modi e le ragioni del suo apparire, affermarsi, consolidarsi. Nulla di più illusorio”.
“I fatti possono, tutt’al più, essere sintomi, tentativi, esperimenti.” I fatti propriamente sono “arte-fatti”. Dare consapevolezza della polivocità, dell’interpretabilità dei fatti è un fine decisivo del buon convocatore. A questo si possono riportare tanti discorsi sull’importanza del sensemaking svolti in varie sedi in questi ultimi anni: ma con una differenza fondamentale. Più che offrire o imporre un significato, il buon convocatore apre nuovi orizzonti di significati possibili, agevolando la ricerca del singolo di una propria via alla percezione e alla conoscenza, scelta fra le molteplici strade percorribili.
Centrale dunque è il tema della consapevolezza. La quotidiana apparizione del sole in cielo può essere interpretata come l’espressione di un festoso girotondo del suo terzo pianeta, o il contrario, come è stato per millenni. Così ogni fatto, anche e soprattutto quelli che consideriamo più banali, vengono da noi letti sulla base di pre-interpretazioni, di idola tribus, di cui spesso non siamo neppure coscienti. Il convocatore è colui che risveglia la nostra ragione dal sonno indotto dalle pre-interpretazioni che acquisiamo inconsapevolmente dal momento della nascita. “Oggi, come ai tempi del Battista, una voce grida nel deserto che ora è deserto di rumore e non di silenzio, deserto semiotico. Deserto propriamente non è luogo vuoto, bensì luogo pieno, ma di una sola essenza: sabbia, ghiaia, pietre, polvere, sale ghiaccio…Il deserto della civiltà dei media è anch’esso pieno di una sola essenza: segnali che si compattano in un rumore di fondo. Contro di esso grida la convocazione”.
Riprendendo il concetto di Kuhn potremmo allora dire che, in coerenza con la nostra vocazione al pensiero paradossale, il “paradigma” che Hamlet lascia a chi vorrà raccoglierne l’eredità consiste nel favorire nei lettori la liberazione da tutti i paradigmi, o meglio la costruzione di un paradigma personale fondato sulla comprensione di altri possibili paradigmi, sull’apertura ad un dialogo fra paradigmi, ovvero fra persone integralmente umane, perché consapevoli.
Abbiamo iniziato questa breve relazione ricordando che Whitehead affermò che tutta la storia della filosofia occidentale altro non è che una serie di glosse a Platone, mentre per Harold Bloom la vita degli uomini dell’età moderna e contemporanea non è che una continua reinterpretazione dei capolavori di Shakespeare. In sostanza, entrambi affermano che le idee fondamentali su cui gli esseri umani costruiscono la loro vita individuale e associata sono poche centinaia e che gran parte di queste si trovano riassunte nei capolavori creati da coloro che più di altri hanno avuto il talento di intuirle, descriverle e diffonderle in forme “convocative”, ovvero tali da renderle accessibili alla re-interpretazione della vasta maggioranza dell’umanità.
Anche sotto questo profilo la scelta editoriale di Hamlet sembra coerente: ogni numero è dedicato ad una di queste idee fondamentali, che viene illustrata partendo da un dilemma che rappresenta i poli possibili di uno spettro estremamente vario di possibili interpretazioni. Se ne ripercorriamo la storia, è facile scoprire che Hamlet l’insieme dei numeri usciti costituisce una sorta di piccola enciclopedia manageriale in continua evoluzione, utile per orientarsi nei complessi meandri dei labirinti aziendali. Credo sia utile in questa riflessione “rifondativa”, riprendere la sezione del sito aidp.it, dove proponiamo l’elenco completo dei temi trattati con una breve descrizione di ciascuno di essi: una sorta di “mappa” che può costituire una utile guida per chi voglia riprendere i contributi che manager, consulenti, persone della più varia estrazione culturale hanno offerto sui singoli argomenti e che sono disponibili on-line.
Qualche ultima nota strettamente personale. Nel corso degli anni ’60 la poetessa Wislawa Szymborska (successivamente Premio Nobel per la Letteratura) ha tenuto una rubrica per la rivista Vita letteraria di Cracovia. Si intitolava “Posta letteraria” ed era riservata a coloro che inviavano in redazione i propri manoscritti per ricevere un giudizio. Una preziosa scelta delle risposte date dalla poetessa agli aspiranti scrittori è stata pubblicata pochi mesi fa per le edizioni Scheiwiller in un agile libretto di una novantina di pagine che ho trovato più illuminante e divertente di tanti manuali di “scrittura creativa” o di “tecniche di comunicazione scritta” che ingombrano poco utilmente gli scaffali di molte librerie. A pagina 87, però, la penultima lettera riportata nel libro mi ha gelato il sorriso sulle labbra. “I suoi Saggi sono costituiti da intricate esibizioni su temi slegati. Non c’è in essi ombra di composizione, per non dire della lodevole tendenza alla concisione. Perchè non prova a scrivere epigrammi, che sono un esercizio perfetto di corto circuito mentale? Il lettore di oggi è nervoso, preferisce formi brevi e, per quanto possibile, che facciano ridere. L’estensione delle sue divagazioni fa perdere le staffe”.
Lo ammetto: in un istante ho riconosciuto nelle parole della poetessa una rappresentazione impietosa del mio modo di scrivere gli Editoriali, che ho descritto più sopra: quanto di più revocativo si possa immaginare. Forse dovrei veramente darmi agli epigrammi, ma temo di non esserne capace. Ma è poi vero che convocazione debba essere sintetica? Certo deve essere coerente, comprensibile, affascinante, per stimolare una risposta. Deve proporre un pensiero che rispecchi la complessità della vita, senza per questo essere superfluamente complicato. Semplice, ma non semplicistico.
Gli Editoriali sono composti da “intricate esibizioni di temi slegati”? Talvolta forse è accaduto, ma l’ideale perseguito è piuttosto quello del “realismo magico”, la categoria critica creata da Franz Roth per la pittura di Carlo Carrà, utilizzata poi per identificare una componente fondamentale di Novecento delineatasi al finire degli anni ’20, ma anche da Trupia per marcare le caratteristiche del discorso convocativo. In pittura gli interpreti principali di questa corrente sono Antonio Donghi, Riccardo Francalancia e Cagnaccio di San Pietro. II realismo magico scarta i risultati delle avanguardie per rifarsi direttamente alla tradizione nazionale, in particolare ai modelli trecenteschi e quattrocenteschi. Il suo obiettivo è di approdare a una rappresentazione realistica del mondo, domestica e familiare, ma al tempo stesso aperta a nuovi orizzonti di significato. Si tratta di un realismo meticolosamente preciso, sia nel trattamento dei particolari che nella definizione geometricamente esatta delle coordinate spaziali. Lo scenario è immobile, incantato, immerso un’atmosfera silenziosa, rarefatta, onirica, ma soprattutto capace di nobilitare la banalità dei soggetti trattati, grazie anche all’uso di modi pittorici particolarmente raffinati. Descrivendo l’opera-manifesto della pittura metafisica Il pino sul mare di Carlo Carrà, Trupia scrive: “tra due “oggetti” di differente carica semantica, una roccia con l’ingresso di una grotta e un semplice cavalletto con un lenzuolo da bagno sopra, è questo, l’oggetto simbolicamente più povero, a candidarsi come protagonista, perché risuona di più nel vissuto” di chi osserva il quadro. Così in letteratura la categoria del “realismo magico” è stata utilizzata da un autore come Bontempelli, convinto negatore di ogni forma di verismo e realismo ottocentesco, quanto accanito ricercatore “della qualità intrinseca, anche se relativa, del reale; cioè non di quello che devono ma di quello che possono essere le cose” (Pietro Taravacci).
L’essenza del realismo magico, tuttavia sta in altro: consiste nel sapere accostare tra loro oggetti familiari, se non di uso quotidiano, che normalmente però sperimentiamo separatamente l’uno dall’altro. Osservarli raffigurati in un insieme apparentemente inesplicabile, spalanca la porta a nuove possibili interpretazioni del reale, consente l’accesso a nuovi livelli di consapevolezza e comprensione dei “fatti”. Si tratta di porre gli interlocutori, come scrive Trupia, davanti alla “presenza in scena di oggetti incongrui e disparati, che hanno però il potere di convocare il lettore a mettersi in sintonia con l’autore, entrando in un setting comunicativo, per lui predisposto, ma che ne rispetta l’autonomia percettiva. Un lettore che lavora, quindi, con l’autore alla produzione di senso del testo”. Ecco allora che per ottenere questo obiettivo negli anni noi abbiamo accostato Shakespeare alla vita d’azienda, Musil al Customer Relationship Management, Achab e Bartlebly a Daniel Goleman e Peter Senge, Robinson Crusoue alla Balanced Scorecard, e via dicendo. Portato alle sue estreme conseguenze, è un approccio epistemologico che non solo permette il disvelamento di nuovi livelli di significato al di sotto (o al di sopra) di quello più triviale e quotidiano su cui per pigrizia tendiamo ad attestarci (quel realismo prosaico che, secondo Flaiano, “mette tragici limiti a ogni finzione e, per conto suo, non raggiunge mai i propri limiti”), ma può condurre alla scoperta fatta dallo “Scrittore B”: “le opere assolutamente fantastiche sono due volte vere, perché la fantasia ha regole che vanno rispettate; il che non vale per la realtà, affidata al caso e incongruente”.
Perversioni intellettualistiche ed inattuali mie e di qualche altro pazzo amico mio? Forse, ma è significativo che nel programma 2002-2003 di ben due corsi (Storia dell’arte contemporanea e Fenomenologia degli Stili) dell’Università di Bologna vi sia la partecipazione ad un Seminario dedicato a “Realismo magico e ritorno all’ordine”. Nella presentazione del quale si illustra un percorso didattico che passa attraverso la rilettura dei pittori e degli scrittori sopra citati (Carrà, de Chirico, Bontempelli, eccetera) e che così si conclude: “l’iperrealismo che caratterizza gli anni ’20 lo ritroveremo nelle riproduzioni ad alta fedeltà della computer graphic, così come le bizzarrie del Realismo magico si manifestano oggi nella comunicazione pubblicitaria, in quella dei videoclip ed in genere della Mtv generation”.
Va inoltre aggiunto che di realismo magico, in una accezione non troppo diversa da quella sopra esposta, si parla per alcune produzioni letterarie recenti. Mi riferisco, in particolare, al “realismo magico” che nacque in America Latina verso la fine degli anni ’60, quando alcuni giovani scrittori (Garcia Marquez in primis) vollero opporsi al modo monocromatico attraverso cui il realismo della letteratura tradizionale e la scrittura coloniale avevano rappresentato le loro terre ; ma anche al “realismo magico tibetano” di Tashi Dawa (uno fra i più autorevoli scrittori cinesi) che emerse negli anni ’80 come alternativa al realismo socialista e come una via per mettere l’accento sulle culture locali. Ancora, di “realismo magico” si è parlato a proposito dello splendido romanzo indiano Il dio delle piccole cose, anche se critici come Irene Bignardi ne hanno evidenziato, oltre alla similitudine con Cent’anni di solitudine, anche i caratteri di originalità. Una originalità che assume i caratteri tipici della convocazione, in cui lo scontato non è mai tale e l’aprirsi di nuove prospettive di significato, solo apparentemente ingenue, è essenziale: “la differenza fondamentale (da Garcia Marquez) essendo che la «magia» del realismo di Arundhati Roy deriva non tanto da una scelta di stile (che pure è presente) quanto dalla scelta del punto di vista. Quello di due bambini di sette anni, un fratello e una sorella, due gemelli (eterozigoti, e quindi non identici, ma non per questo meno legati da un profondo segreto legame), che con i loro immensi occhi guardano, scompongono, censurano, accentuano, modificano, ricostruiscono a modo loro la complicata, tragica, burrascosa realtà che li circonda. Uno sguardo «ingenuo»che vede (e osserva) cose apparentemente insignificanti – ma per loro molto significanti. Che ne ignora altre visibili al mondo degli adulti e invisibili a chi già non si nutre di regole e di tabù”.
Quest’ultimo tratto – ovvero la valorizzazione, nel confronto fra i soggetti e gli oggetti che mette di volta in volta sotto i riflettori, di quelli più deboli secondo i paradigmi in uso comunemente – è tipico, abbiamo visto, di tutte le opere interpretabili secondo i canoni del realismo magico e dunque è stato segnalato credo un po’ frettolosamente dalla Bignardi come elemento totalmente originale dell’opera della scrittrice indiana: tanto che lo ritroviamo persino in molti film. Basti pensare, come ha suggerito il regista Silvano Agosti in una intervista, allo “straordinario Oltre il giardino di Ashby, nel quale il cosiddetto portatore di handicap (magistralmente interpretato da Peter Sellers) si dimostra ad un livello assai più alto e profondo dei cosiddetti normali”. Lo stesso capita nel più recente Il fantastico mondo di Amelie, che peraltro si connota in maniera ancora più evidente con le stimmate del realismo magico.
Tanto basta a rinforzarmi nell’idea che di un metodo inattuale sì, ma nel senso nietzchiano, e non di una pura follia stiamo parlando. Pertanto, mi ostino a credere che, nella misura in cui i futuri epigoni (sperabilmente mutanti e non cloni) di Hamlet riusciranno a perseguire i canoni del “realismo magico”, forse manterranno il potere convocativo che in questi anni la rivista ha dimostrato di possedere. Una forma di potere che, a differenza di altre come la tradizione, l’autorità, il prestigio, non trova un fondamento anteriore alla propria espressione, bensì all’atto del suo manifestarsi nel riconoscimento da parte dell’interlocutore. Non solo, ma “il convocatore tanto più lo sarà, quanto più comprometterà il proprio sé nell’interlocuzione con l’altro”. In ultima analisi, dunque, per realizzare la vera convocazione tramite la scrittura occorre stabilire una iterazione fra scrittore e lettore.
Ma il potere di convocazione, apprendiamo da Piero Trupia, è per sua natura intrinsecamente selettivo: per convocare uno specifico uditorio si deve revocare una parte del più vasto pubblico. Ebbene, ci rassegneremo a fare a meno dei lettori orientati al gradimento delle forme più becere di umorismo, che lascio volentieri ad autori come Panariello o i Fichi d’India; nonché a rinunciare a quanti riscontrano una spiccata inclinazione verso la nevrastenia, che probabilmente comprendono quella categoria di persone tendenti a confondere, come si dice, “l’azione con l’agitazione”. Nella speranza che Wislawa Szymborska si inganni nel ritenere che solo da costoro sia costituita la larghissima maggioranza dei potenziali lettori.
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