Sognare o forse morire (Prima parte)
To show the beldam daugthers of her daughter, To make the child a man, the man a child, To slay the tiger that doth live by slaughter, To tame the unicorn and lion wild.The rape of Lucrece
William ShakespeareGli androidi sognano le pecore elettriche? Questo bizzarro interrogativo è il titolo del romanzo di Philip K. Dick da cui fu tratto nel 1982 il cult movie Blade Runner, rimontato in una versione definitiva dieci anni dopo dal regista Ridley Scott con il titolo The director’s cut. Alla luce della trama del film (benché parzialmente divergente da quella del libro), si può cogliere il senso del quesito ed è possibile sviluppare alcune (spero) interessanti considerazioni a latere. Ripercorriamola dunque in breve.
Siamo nella Los Angeles del 2019, dove la Tyrrell Corporation fabbrica androidi, ovvero, inizialmente, animali sintetici da usare come sostituti degli animali veri ormai in via d’estinzione; poi, replicanti umanoidi creati per scopi militari e la colonizzazione dello spazio. La storia comincia dopo che la Tyrell ha realizzato il Nexus-6, copia perfetta di un essere umano, ma di lui più forte ed intelligente. Unici limiti: non oltre quattro anni di vita e la mancanza di empatia. Quest’ultima debolezza consente di distinguerlo dagli umani tramite il test di Voight-Kampff (VK), che registra emozioni quali l’indifferenza verso gli animali (che si traduce, per esempio, nel non desiderare il possesso di pecore elettriche).
In questo quadro, il disoccupato Rick Deckard (Harrison Ford) viene costretto, dal capo della polizia Bryant e dal tirapiedi Gaff, a riprendere il suo vecchio lavoro di Blade Runner, cacciatore di replicanti. Deve “ritirare” (eliminare) quattro Nexus-6 fuggiti dalle colonie. Prima di iniziare il lavoro Deckard si reca alla Tyrell Corporation. Qui incontra il dottor Eldon Tyrell, che gli chiede di effettuare il test VK sulla sua assistente, Rachael. Deckard conclude che Rachael è una replicante. Tyrell informa che i Nexus-6 possiedono una pseudo-personalità definiti da innesti di memoria: Racheal è un prototipo sperimentale avanzato, dotato della (falsa) convinzione di essere umano (mentre i Nexus-6 sanno di essere delle copie).
Deckard comincia quindi le indagini ed elimina il primo replicante: Zhora. Bryant e Gaff si congratulano con lui: gli ingiungono però di “ritirare” anche Rachael, che è scomparsa. Ma, quando Deckard sta per essere ucciso dal secondo Nexus-6, è proprio Rachael a intervenire sparando all’androide. Deckard allora conduce Rachael nel proprio appartamento. Qui le dimostra che è una replicante, descrivendole il ricordo che lei ha di un ragno visto da bambina: uno degli innesti di memoria di Tyrell. Inoltre Rachael si accorge di saper suonare il piano di Deckard (altra abilità standard per un replicante). Deckard tuttavia afferma che non le darà la caccia perché le deve la vita (ma “qualcun altro lo farà”). Poi lui si riposa. Al suo risveglio, i due fanno l’amore.
Nel frattempo Pris e Roy Batty, i due replicanti ancora vivi, sono stati accolti da un aiutante di Tyrell, J. F. Sebastian. Grazie al suo aiuto Roy riesce a incontrare il proprio creatore, Tyrell, e a chiedergli più vita per sé e per Pris (che ama). Tyrell dichiara di non poter fare nulla. In un impeto di rabbia. Roy ammazza lui e Sebastian. Informato via radio dell’accaduto, Deckard va a casa di Sebastian e uccide Pris. Arriva Roy che lo disarma e gli spezza due dita. Poi Roy piange per Pris, la bacia e quindi insegue Deckard per l’intero palazzo. Roy comincia a dar segni di morte imminente: tuttavia è sempre superiore a Deckard. Questi si arrampica sul tetto, salta su un edificio vicino, sotto la pioggia battente, finendo appeso con una mano (quella con due dita rotte!) a una trave bagnata. Roy gli balza accanto. Deckard molla la presa: ma Roy lo afferra, lo tira su e, prima di morire, pronuncia un soliloquio commovente.
Appare Gaff. Deckard gli comunica la sua decisione di ritirarsi. Andandosene Gaff risponde: “Peccato però che lei non vivrà… sempre che questo sia vivere”. Deckard torna a casa e trova Rachael addormentata. La sveglia ed esce con lei. Deckard nota un origami. Gli rieccheggiano in mente le parole di Gaff. Sorride con una smorfia e segue Rachael in ascensore. Le porte si chiudono. Fine.
Poliziotto, killer, pesce freddo
Wert thou unicorn, pride and wrath would confound thee and make thine own self the conquest of the furyTimon of Athens
William Shakespeare Se al principio del film la distinzione fra umani e androidi è netta, al termine è impossibile distinguere fra uomini “veri” e “falsi”: anzi, se il discrimine c’è, è dato dalla superiorità non solo intellettuale e fisica ma anche etico-morale dei replicanti. Forse allora anche gli androidi sognano, come gli esseri umani, le pecore elettriche; forse sono persino in grado di fare sogni più belli. Blade Runner, insomma, ha al suo centro il sogno e il suo rapporto con la realtà: tema squisitamente shakespeariano (“We are such stuff/As the dreams are made of”, La Tempesta). Non casualmente Federico Tiezzi, drammaturgo che da alcuni anni rincorre il “suo” Amleto nella varietà dei possibili approcci alla tragedia, ha intitolato l’ultima tappa di questo viaggio Scene di Amleto-secondo sogno e ha affermato: “L’idea del sogno è stata la mia premessa. Chi sogna è Amleto, certo. Ma è anche il regista a sognare Amleto sognante. Per far sognare gli spettatori”. Per Shakespeare, come per Dick, il sogno è forse l’unica via da seguire per cercare una soluzione alle questioni poste dai replicanti con la loro ribellione. “Tutto ciò che volevano”, dice nel film Rick Deckard, “erano le stesse risposte che tutti noi vogliamo: da dove vengo, dove vado, quanto mi resta ancora”.Il protagonista di Blade Runner assomiglia in maniera sconcertante all’archetipo del direttore del personale, così come viene tradizionalmente raffigurato. Quando viene inquadrato per la prima volta, Deckard sta leggendo il giornale. La voce fuori campo (nella versione originale, poi soppressa) informa lo spettatore e recita: “They don’t advertise for killers in a newspaper. That is my profession. Ex-cop, ex-blade runner, ex-killer”. E ancora, due scene dopo: “Sushi. That’s what my ex-wife called me. Cold fish”. Lo spettatore viene informato che il protagonista è un duro, un ex killer, un individuo freddo e solo. Francamente, con un paio di correzioni (del tipo: “ex carabiniere” al posto di “ex-cop” e “tagliatore di teste” invece che “cacciatore di androidi”) questo è il ritratto di molti responsabili “Risorse Umane e Organizzazione” di mia conoscenza.
Ciò che più lo caratterizza è l’insensibilità: paradossalmente (ma non poi tanto, come vedremo) supposto tratto distintivo di quei replicanti che alla fine risultano più empatici di lui. Fino al duello con Roy Batty, Deckard è indifferente all’eliminazione degli androidi: persino a quella di Pris, la copia di Rachael, con cui ha appena fatto l’amore. Ma l’indifferenza nei confronti degli androidi è una indifferenza nei confronti degli uomini. Deckard non si scompone nell’apprendere che il test VK, in base a cui decide se ha di fronte un replicante o un uomo, può essere inefficace e che, molto probabilmente, sono stati “ritirati” per errore veri esseri umani con facoltà empatiche poco sviluppate.
Ebbene, come Deckard, anche i direttori del personale sottopongono continuamente i dipendenti a test: per valutare potenziale, competenze, conoscenze, prestazioni. Anche se sanno benissimo che sulla base di questi test è possibile commettere errori. E come tanti direttori del personale, Deckard, quando scopre degli individui eccezionali… li elimina, se si rifiutano di eseguire i lavori più umili, faticosi e duri. Straordinaria analogia con l’impresa di oggi: i mediocri controllano, i migliori sono eliminati, o scappano dai campi di prigionia aziendali. Ahimè: con ogni probabilità, dovunque andranno, verranno “ritirati”.
Ma, soprattutto, Blade Runner descrive un mondo in cui un caos strisciante e onnivoro si annida nelle case fatiscenti, nei condomini abbandonati, nelle strade buie e fumose, dove, sotto una incessante pioggia radioattiva, ogni forma si annulla e ogni significato viene perduto. Ecco allora lo “scandalo” degli androidi, che non sono affatto dei replicanti, delle copie. Al contrario, la disperata affermazione del loro “essere altri”, il rifiuto di abbruttirsi nelle colonie extra mondo sprecando i propri meravigliosi talenti, la volontà di avere un futuro migliore: tutto ciò li rende entità sommamente pericolose. Per questo è necessaria l’opera di Deckard, che, sopprimendoli, distrugge il possibile ingresso nel mondo di un nuovo ordine basato sulla valorizzazione delle diversità (ivi compresa quella fra androidi e umani): consentendo la vittoria dell’indifferenziazione, del disordine, della mediocrità su cui perversamente il sistema si fonda, ma a causa dei quali, al tempo stesso, sprofonda nel nulla.
E diciamoci la verità: non si comportano così anche molte direzioni del personale, quando i Tyrell della situazione, i top manager, non si occupano che di tagliare i costi, ridurre gli organici, rispettare i budget, aumentare la produzione? Questo non significa che i vertici aziendali siano “cattivi”. In Blade Runner c’è un momento in cui si coglie Tyrell nell’intimità della sua camera da letto. In quanto presidente-tiranno della multinazionale che produce robot genetici, è l’ovvio candidato per una rappresentazione semplificata del potere. Quali malvagità starà covando? si chiede lo spettatore. Nessuna, risponde il regista Ridley Scott. Tyrell sta solo studiando qualche iniziativa da intraprendere in borsa, mondo ben più artificiale delle false memorie degli androidi: è il suo modo di sognare, ma illudendosi di essere sveglio. Quando il disordine è massimo, si cancellano i confini fra vero e falso, giusto e sbagliato, veglia e sonno. Per citare Omero e Virgilio, l’incapacità di cogliere le differenze genera sogni che vengono dalla “porta d’avorio” (“che avvolgono d’inganni la mente”) e non da quella “di corno” (“che verità incorona”). Perso nel suo progressivo delirio di onnipotenza, Tyrell si è creato un proprio mondo in cima ad un grattacielo pressocchè inaccessibile. La vita nella sua concretezza brulica fuori, molto lontano, in basso: per arrivare al suo cospetto, Roy Batty deve superare allarmi e barriere. Così, quando la realtà fa breccia nella fortezza di Tyrell, egli non è più in grado di comprenderla: per lui sarà un incontro letale.
Mutatis mutandis, l’imperativo categorico che viene introiettato dai direttori del personale “tradizionali” è : “non si deve disturbare il manovratore”. Sotto l’egida di formule sacrali quali “lean organization” o “bpr”, il loro vero obiettivo diviene quello di evitare che ai piani alti si possa generare irritazione: si preoccupano perciò di contenere le differenze, di sfrondare gli esuberi, di garantire “la pace sociale”, di mantenere “l’equità interna”: controllare, appiattire, normare, proceduralizzare. In sintesi, “fare chiarezza” immergendo l’impresa nella nerezza di una notte in cui tutte le vacche (o meglio, tutte le persone che rientrano nel “parco buoi” aziendale) sono nere. Indistinguibili, ma interscambiali. Abbruttite, ma (all’apparenza) innocue. Assimilate insomma a quel Calibano che così da Prospero viene giudicato: ”We cannot miss him. He does make our fire,/Fetch in our wood, and serve us in offices/that profit us” (“Un bruto, ma ci aiuta: accende il fuoco,/porta i ceppi e rende utili servizi”). Approccio gestionale con una sua giustificazione pratica solo fino a quando il management verrà sorpreso da un “imprevedibile” calo dei profitti e dalla conseguente sostituzione del Consiglio di amministrazione. Ma va da sè che lo zelante direttore del personale provvederà ad innalzare subito un nuovo muro che tenga ben distante il neo amministratore delegato dalla “banale” quotidianità aziendale.
For he loves to hear That unicorns may be betray’d with trees, And bears with glasses, elephants with holes, Lions with toils and men with flatterersJulius Caeser
William ShakespeareE’ possibile (evitando di cadere in vacuità di marzulliana memoria) sognare un ruolo diverso per il direttore del Personale? Per rispondere a questa domanda suggerisco di rileggere il testo “onirico” per eccellenza: il Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare. In questa commedia accade che, mentre Teseo, duca di Atene, e Ippolita, regina delle Amazzoni, si apprestano a celebrare le loro nozze, due coppie di innamorati si inseguono vanamente. Perchè Ermia ama, riamata, Lisandro, ma il padre vuole darle per marito un altro, i due decidono di fuggire. Demetrio (il fidanzato designato) ed Elena, a sua volta innamorata di Demetrio, che invece la disprezza, li inseguono attraverso la foresta.
Qui i loro destini si incrociano con quelli di alcuni artigiani, che provano uno “tragico spasso” da recitare in onore del duca. Ma la foresta è anche il luogo in cui Titania e Oberon, regina e re delle fate, si contendono il possesso di un giovane paggio. Per ripicca, Oberon chiede al folletto Puck di porre sugli occhi di Titania il succo di un fiore magico che la faccia innamorare del primo essere vivente che, destandosi, le apparirà: questi sarà l’artigiano Bottom, con la testa trasformata da Puck in quella di un asino. Inoltre Oberon ordina che Puck incanti Demetrio, affinché si innamori Elena. Ma Puck confonde Demetrio con Lisandro, che così si trova ad amare follemente non più Ermia, ma Elena.
Mentre Bottom gode dei favori di Titania, Oberon, per rimediare all’errore di Puck, incanta Demetrio: ma adesso Elena è amata dai due greci ed Ermia è abbandonata. e inoltre insopportabile vedere delirare per l’asinino Bottom Titania (che fra l’altro sotto incantesimo ha ceduto il paggio a Oberon, facendo venir meno la causa del loro litigio): così, sia lei sia Lisandro vengono liberati dalla malia. La commedia si conclude con la riappacificazione di Titania con Oberon, le nozze delle tre coppie umane e la recita finale in loro onore degli artigiani.
Questa la storia. Per comprendere come questo stravagante intreccio fiabesco possa fornire suggerimenti nel definire il nuovo ruolo del direttore del Personale, è utile riprendere alcune delle osservazioni che Renè Girard propone in suo testo, pubblicato da Adelphi, dal titolo Shakespeare, il teatro dell’invidia. La tesi fondamentale del libro è che gran parte delle opere shakespeariane si fondano su un conflitto scaturente dal desiderio mimetico, ovvero il desiderio di essere un altro, attraverso il possesso di ciò che l’altro, assunto come modello, possiede.
Il Sogno di una notte di mezza estate si presta particolarmente bene a dimostrare le tesi di Girard. Sia sufficiente ricordare che Lisandro e Demetrio non sono mai innamorati a lungo di una delle due ragazze, ma di volta in volta entrambi si innamorano sempre della stessa. Demetrio desidera Ermia finché Lisandro mostra di amarla; non appena costui si volge verso Elena, lo segue. La medesima logica vale per tutti gli altri. Nella prima scena si spiega che all’inizio Elena amava Demetrio e ne era riamata. Ma poi la sua amica del cuore Ermia fece innamorare di sé Demetrio. Perché Ermia ha rubato Demetrio all’amica del cuore? Perché fra Ermia ed Elena sussiste lo stesso rapporto mimetico esistente fra Lisandro e Demetrio: ciò che è posseduto dall’una viene subito voluto dall’altra. Il rapporto è a due vie, tanto che, nel primo atto, è Elena a esprimere esplicitamente il desiderio di “cangiarsi” in Ermia: avere Demetrio è solo un mezzo per essere Ermia. E infine Lisandro: dopo avere sottratto Elena a Demetrio, gli manca il pungolo della rivalità mimetica. Gli sembra allora desiderabile Ermia, guarda caso designata a essere la sposa di Demetrio.
Malgrado le fate e gli elfi, dunque, Shakespeare ci sta parlando di un fenomeno molto concreto: il desiderio mimetico (in parole semplici, l’invidia) che quasi sempre nutre di sé le relazioni personali e professionali anche nell’odierno mondo aziendale. E c’è solo un modo, tragico e paradossale, per chiudere il circolo vizioso che il desiderio mimetico avvia: la distruzione dell’individuo preso a modello. Gli americani hanno coniato un nome preciso per questo fenomeno: mobbing, termine rubato all’etologia che indica il comportamento aggressivo messo in atto da alcune specie di uccelli nei confronti dei potenziali contendenti. L’estraneo viene accerchiato, intimorito e respinto. Il lavoratore invidiato viene chiacchierato, isolato, deriso, sabotato, sminuito, reso inutile. E’ un fenomeno che in Paesi europei come la Gran Bretagna e la Svezia è assai diffuso, ma è segnalato in crescita anche da noi. Maria Grazia Cassitto, della Clinica del Lavoro di Milano, ha dichiarato: “Negli uffici la diversità di qualsiasi ordine, sessuale, etnico, culturale, scatena piccoli e grandi meccanismi persecutori. A volte basta essere più intelligenti o meno conformisti per trovarsi nei guai. La diversità, direbbe Girard, scatena il desiderio mimetico. Non potendo impadronirsi delle qualità intrinseche del modello invidiato, come l’intelligenza, si cerca di eliminarlo. Attualissima dunque è la satira feroce che Shakespeare fa di una società formata da presunti individualisti, in effetti totalmente asserviti gli uni agli altri; dove chi è portatore di idee diverse e originali è destinato a divenire il capro espiatorio (nel linguaggio di Dick, l’androide, il replicante) su cui scaricare le enormi frustrazioni che la vacua circolarità del desiderio mimetico determina. Il Giulio Cesare è il contraltare tragico del Sogno di mezza estate nella rappresentazione shakespeariana dell’invidia.
Ed è questo elemento che mi preme evidenziare. I meccanismi sopra accennati sono, nel Sogno, fonte di un crescente disordine, che, come accade in Blade Runner, determina confusione, indifferenziazione, perdita di significato. A mano a mano che il culmine della notte si avvicina, tutti perdono quel po’ di ragione che era loro rimasto: vagano, come bruti nella foresta, scambiandosi insulti e venendo infine alle mani. Parallelamente, nel loro linguaggio amoroso si assiste a una proliferazione di immagini di animali. Per esprimere il proprio avvilimento Elena si paragona a varie bestie: prima si lamenta di essere “brutta come un orso”; poi rivolgendosi a Demetrio esclama: “O mio Demetrio, più mi bastoni e più ti faccio le feste!”. Ma quando i due ragazzi abbandonano Ermia per Elena, ciò che era bestia si trasforma in dio, e viceversa: così tocca a Ermia sentirsi cane. Con l’intensificarsi della notte, le metafore animali si moltiplicano, sono sottoposte a capovolgimenti e a inversioni: “L’antica favola è riversa, fugge Apollo e Dafne lo persegue; la colombella dà la caccia al grifone, la mite cerbiatta corre ad afferrar la tigre…”.
La rivalità mimetica, spiega Girard, distrugge l’individualità dei quattro innamorati. Ciascuno si sente dapprima enormemente superiore a uno degli altri, poi assolutamente inferiore; con l’avanzare della notte di mezza estate, ogni differenza tende a scomparire. A forza di oscillare sempre più in fretta, il cane e il dio, la bestia e l’angelo e tutti i contrari di questo genere si fondono in una sintesi che non è un insieme armonioso, ma un’accozzaglia di tutte le componenti, in un processo di crescente reciprocità e uniformità. Una conferma di questa linea interpretativa, fra l’altro, la troviamo nel lavoro teatrale precedentemente citato di Tiezzi, Scene di Amleto-secondo sogno, dove il progressivo deterioramento dei rapporti fra i personaggi, causato dalla uccisione del re danese da parte dell’invidioso fratello Claudio, viene segnato dal numero di animali che Amleto usa per i suoi paragoni: il re è un rospo, una iena, un pipistrello; Rosencrantz e Guildernstern sono serpenti a sonagli, mentre Gertrude e Polonio sono una regina-coccodrillo e il cane da guardia Anubis, due divinità egizie.
Si spiega così anche perché Titania, descrivendo il disordine provocato nella natura dal suo litigio con Oberon, sottolinea che perfino le quattro stagioni, come i quattro innamorati, sono divenute un miscuglio mostruoso. Il mostro è l’ultima fase di una confusione totale, in cui scompare ogni tratto distintivo: “son le stagioni sovvertite… la primavera, l’estate e l’autunno, e l’iracondo inverno si sono scambiate le livreee; e il mondo sbalordito non più dai lor prodotti distingue le stagioni”. E così l’apice del non senso si avvicina con la metamorfosi mostruosa di Bottom, che assimila elementi propri di un asino e di un essere umano.
Mostruosità nella mostruosità è infine il suo accoppiamento con Titania: l’essere più leggiadro, la regina delle fate, si unisce al più infimo e stupido degli uomini, per di più fisicamente imbestiato. Il desiderio mimetico, l’invidia, produce una contro-realtà in cui i personaggi si dissolvono: credono di essere circondati da mostri, ma sono mostri essi stessi. L’ordine naturale e umano è sconvolto,, ogni significato è andato perduto: la distinzione fra uomini, fate e animali è scomparsa, così come in Blade Runner non è più possibile discernere gli uomini e gli animali “veri” da quelli “elettrici”, dai replicanti; e, in molte aziende, fra i mediocri e i migliori, gli striscianti ruffiani e i validi collaboratori, gli arroganti e i competenti.
Disastro cosmico fra l’altro causato dal più futile dei motivi, l’invidia (ancora una volta) di Oberon per il paggio di Titania: triste parallelo con le meschine rivalità di tanti top manager che conducono spesso a faide interne dall’impatto rovinoso sulle motivazioni, sui comportamenti e quindi sulle prestazioni delle persone che essi dovrebbero valorizzare.
(1 – continua)
One Response to 16. Blade runner o folletto? settembre 1999
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