Il 6 dicembre 2011 lancio il Delphi online La rivoluzione social e le aziende (cfr. La rivoluzione social e le aziende: go live!): una tappa di una ampia indagine sulla trasformazione in atto nelle organizzazioni, ormai irresistibilmente tese verso i nuovi modelli organizzativi proposti dallo Humanistic Management 2.0. La metodologia adottata per realizzare l’indagine è stata così articolata:
La riflessione prende le mosse dal fatto che la visione del Cluetrain Manifesto “i mercati sono conversazioni” (1999) si è realizzata, allargandosi a tutta la società (ne abbiamo parlato anche nell’ambito delle nostre note ad Alice: vedi La conversazione in Rete: fra Regole, Netiquette, Policy ed Emoticon – Alice annotata 19a, La Buona Educazione nell’era del Societing – Alice annotata 19b, La società della conversazione – Alice annotata 20). Siamo entrati, per usare la terminologia di uno dei pannellisti del 22 maggio, Luigi Ferrari, Presidente di People, nell’Era della Convergenza. Cosa questo significhi è sotto gli occhi di tutti. Ciò che è avvenuto in Tunisia, Libia ed Egitto con le “primavere arabe”, ma anche negli USA con Occupy Wall Street, in Europa durante le recenti elezioni amministrative in Italia e in Germania, in tutto il mondo con Wikileaks: è solo una piccola parte delle conseguenze portate dalla massiccia diffusione del web 2.0 e del social networking, che sta aumentando il potere delle community online e offline, ponendo alle organizzazioni una sfida cruciale.
Una rivoluzione copernicana
A chi non fosse ancora convinto, basterebbe ricordare gli oltre 900 milioni di iscritti a Facebook per affermare che il cambiamento investe i dipendenti come i clienti, gli shareholder e gli stakeholder, insomma ciascuno di noi. Per le imprese diventa necessario rivedere le proprie politiche e i propri strumenti di comunicazione, di formazione, di gestione interna, di relazione con il territorio e le comunità. In una parola,la propria strategia e cultura d’impresa alla luce della rivoluzione portata dal web 2.0.
Per compiere questo passaggio è innanzitutto necessario avere bene in mente cosa si intende con “web 2.0″: spesso la mancanza di chiarezza su questo punto agevola gli alibi e le fughe in avanti di chi in realtà è terrorizzato dal crollo del tradizionale sistema di management “scientifico“.
Dunque distinguiamo, magari con l’accetta. Originariamente il Web è stato usato come modo per visualizzare documenti ipertestuali statici, creati con l’uso del linguaggio HTML (1989, Tim Berners-Lee). In questa fase l’utente è un semplice “lettore”; l’approccio è quello di una semplice consultazione. Questo è quanto indendiamo, in buona sostanza, con “Web 1.0″.
”Web 2.0″ è il termine coniato nel settembre 2005 dal guru americano Tim O’Reilly. Si riferisce ad una piattaforma partecipativa che trasforma il Web da una estensione del sistema dei mass media (basato sul broadcasting dei contenuti) a uno spazio basato su un nuovo ruolo dell’utente: dalla semplice lettura alla possibilità di contribuire popolando il Web e alimentandolo con propri contenuti. Il Web 2.0 è dunque “architettura della partecipazione e intelligenza collettiva”, ovvero “quel comportamento collettivo di tipo cognitivo che prende forma attraverso le tecnologie che consentono l’aggregazione dell’intelligenza distribuita in diversi individui e gruppi sociali” (Bennato, 2011).
In termini semplici, il Web 2.0 rappresenta una rivoluzione copernicana perchè mette l’utente al centro: i Blog personali o collettivi, i social network, i wiki, sono i principali ambienti che permettono agli utenti di generare contenuti. Ma nel Web 2.0 l’utente è al centro anche per la sua capacità di aggregare le informazioni e i servizi a cui è più interessato. Anziché navigare nella rete alla ricerca delle informazioni, l’utente può aggregare informazioni e servizi acquisiti dai siti di suo interesse, ormai non solo con strumenti per “addetti ai lavori”, come i feed reader, ma anche attraverso applicazioni molto semplici come Instapaper, Scoop.it, Storify, ecc., sempre più popolari.
Dall’Enterprise 2.0 al Social Business
Le conseguenze di questa rivoluzione copernicana sull’economia appaiono subito molto evidenti. In particolare nel 2006 esce Wikinomics (Tapscott-Williams). Partendo dalla universale diffusione di Wikipedia, Tapscott e Williams ritraggono con estrema chiarezza “il mondo in cui milioni di persone interconnesse tramite e-mail, blog, network, community e chat usano Internet come la prima piattaforma globale di scambio. È il mondo della collaborazione, della comunità, dell’auto-organizzazione che si trasformano in forza economica collettiva di dimensioni globali”. L’esplosione dal 2007 dei social network e conseguentemente dei modelli di Enteprise 2.0, Management 2.0, Social Business, rafforzerà il valore della loro analisi. Vediamo rapidamente di che si tratta.
Il termine Enterprise 2.0 è stato coniato da Andrew McAfee, professore della Harvard Business School, nel paper “Enterprise 2.0: The Dawn of Emergent Collaboration” – MIT Sloan Management Review, 2006. La definizione puntuale di Enterprise 2.0 secondo McAfee è legata “all’uso in modalità emergente di piattaforme di social software all’interno delle aziende o tra le aziende ed i propri partner e clienti”. Per l’Osservatorio Enterprise 2.0 della School of Management del Politecnico di Milano, nato nel 2007, il termine indica una visione più ampia di evoluzione del modello organizzativo e tecnologico dell’impresa che si fonda comunque sull’applicazione di strumenti collaborativi 2.0 e l’utilizzo della tecnologia come piattaforma abilitante dei processi e delle relazioni.
Ma il fattore tecnologico non è sufficiente a risolvere i problemi posti dalla serie complessa di fenomeni messi in moto dal web 2.0 (come l’apprendimento collettivo, l’innovazione partecipata, la co-creazione di valore), che richiedono nuove modalità di intervento: informali, guidate dal basso, spontanee, contestuali. In tutte le aree aziendali la dimensione comunitaria o conviviale (secondo la terminologia dello HumanisticManagement) assume un ruolo crescente nella generazione di valore, rendendo necessaria la rivisitazione dei modelli di leadership e di governance. Per questo oggi si parla (Gary Hamel, Boston Consulting Group, McKinsey, Gartner) di passaggio dal Management 1.0 al Management 2.0, in cui le community e il community management giocano un ruolo centrale.
Fra i principi chiave di questa nuova visione vi è senza dubbio l’apertura dei confini organizzativi: l’enfasi su questo aspetto porta alla definizione di Social Business come “un’organizzazione che ha messo in campo le strategie, le tecnologie ed i processi atti a coinvolgere sistematicamente tutti gli individui che compongono il proprio ecosistema (dipendenti, clienti, partner, fornitori) nella massimizzazione del valore scambiato”. Secondo gli organizzatori del Social Business Forum, con la perdita della “separazione storica e manichea tra il dentro e il fuori dell’azienda, gli attori che acquisiscono il ruolo di co-decision maker e di agenti del cambiamento dell’azienda non sono più i manager, ma neanche i soli clienti (come prescritto invece dal Social CRM). Oltre che dai manager, l’evoluzione organizzativa può essere guidata indistintamente dai clienti, dai dipendenti, dai partner e dai fornitori. Tutte queste categorie passano dal ruolo di comprimari a quello di co-protagonisti. Ancora, il processo di scambio tra interno ed esterno viene reso possibile da un approccio di coinvolgimento non di comunicazione. Coinvolgere significa accogliere una pluralità di esigenze nell’informare il percorso di crescita e cambiamento organizzativo. Il motivo ultimo di esistenza dell’organizzazione non è più la sola generazione di valore a beneficio degli stakeholder tradizionali dell’impresa, ma lo scambio di valore tra l’azienda e l’intero ecosistema”(Fonte: OpenKnowledge).
La social organization come risposta al cambiamento
In questo quadro, io ritengo che il riferimento più adatto per comprendere le treasformazioni in atto sia la social organization (Bradley e McDonald, 2011), intesa come un nuovo modo di fare impresa che consente ad un vasto numero di persone di lavorare collettivamente valorizzando le singole riserve di competenza, talento, creatività ed energia. La creazione di valore sociale passa attraverso la capacità di generare la cosiddetta mass collaboration, sfruttando le enormi potenzialità dei social media, attraverso l’istituzione di community collaborative, che vivano tuttavia anche “offline” Parliamo dunque del prodotto dell’interazione di tre fattori: i social media, le community e la “purpose”, la proposizione di valore.
Riprendendo quanto già scritto in una serie di post dedicati, ricordiamo che:
1. un social media è un ambiente online (“online environment”) creato con l’obiettivo di sviluppare collaborazione di massa.Ciò che è distintivo di un social media non è la tecnologia. Ad esempio, Facebook è un social media fondato su una tecnologia di networking, Wikipedia su una tecnologia Wiki. Esiste un grandissimo numero di tecnologie abilitanti la mass collaboration (blog, tagging, forum, eccetera), che non vanno confuse con quelle che semplicemente supportano la collaborazione fra singoli e team, esistenti da decenni (email, workflow, eccetera).La differenza portata dalle tecnologie dei social media è la scala su cui operano e che consente a centinaia, migliaia persino milioni di persone di creare contenuti, condividere esperienze, costruire relazioni simultaneamente;
2. le community sono gruppi di persone che si riuniscono per ottenere un obiettivo comune. Una community può raccogliere persone (interne e/o esterne all’azienda) spinte da una stessa visione a lavorare insieme in maniera efficiente. Senza community non ci può essere collaborazione di massa;
3. l’obiettivo, la “value proposition” intorno a cui si raccoglie la community, da cui essa viene “convocata”, è l’ingrediente essenziale della collaborazione di massa e quindi della social organization. E’ ciò che determina la spinta interiore, la motivazione, la volontà di lavorare insieme ad altri mettendo a disposizione la propria conoscenza, le proprie esperienze e le proprie idee. E’ la proposta di valore, il fine comune, la pietra di paragone in base al quale si misura l’efficacia di una community, l’adeguatezza della tecnologia sociale da utilizzare, la coerenza con gli obiettivi di business, l’efficienza della leadership.
L’enfasi sulla social organization porta evidentemente il fuoco dell’attenzione sul community management, che può articolarsi:
1. all’interno dell’organizzazione, dove le community operano come hub collaborativo di interazione, relazione, comunicazione, formazione (Intranet 2.0, Corporate blog, Social network aziendali, Social Learning)
2. verso l’esterno dell’organizzazione, dove si sta affermando una nuova idea di marketing conversazionale che ha grande impatto anche sui processi interni (Social media monitoring, Brand Community, Social Innovation, CRM 2.0)
3. sui processi di innovazione, in cui le community sono il luogo di crescita della condivisione delle conoscenze e dell’innovazione partecipata (Innovation Lab, Knowledge creation management, Academy 2.0).
In sintesi: la community definisce chi collabora. Il social media dove collabora. La proposta di valore perché collabora. Semplice no? Ma difficile da mettere in pratica e passare a quella che nel Convegno si definisce “Corporate Social Identity”. Per questo è essenziale prima di tutto avere un modello operativo e cognitivo che definisca l’assetto dell’impresa rispetto alla sua trasformazione in social organization, fondata su:
•l’apertura dei confini dell’organizzazione. All’interno per abbattere le divisioni funzionali; verso l’esterno per coinvolgere attori quali clienti, partner e fornitori;
•la creazione diffusa e partecipativa (co-creation) di contenuti e conoscenza;
•la collaborazione tra le persone indipendentemente da gerarchie e schemi organizzativi predefiniti, basata sulla fiducia reciproca e scambio metadisciplinare;
• l’approccio non riduzionistico alla complessità, basato su velocità e flessibilità nel cambiamento continuo di ruoli, processi di lavoro e sistemi informativi;
•la convivialità centrata sulla valorizzazione delle community virtuali indipendentemente dalla localizzazione fisica e dagli orari di lavoro, coniugata ad una diffusa “socialità offline”;
•lo stile di leadership convocativo;
Uno strumento per la trasformazione: il Modello di Sviluppo Organizzativo dello Humanistic Management 2.0
La discussione di questo paradigma costituirà il centro della mia attività nel 2012-2013. E’ possibile che le organizzazioni lo assumano, abbandonando i vecchi attrezzi manageriali? Come si può in termini operativi, concreti, avviare la trasformazione organizzativa e culturale necessaria? Ci sono degli strumenti disponibili innanzitutto per avviare nelle aziende un ripensamento profondo a livello strategico, di Top Management? Queste saranno le domande chiave.
La risposta affermativa dello Humanistic Management 2.0 si fonda su un originale Modello di Sviluppo Organizzativo articolato in 4 livelli e 12 fattori chiave, frutto anche del percorso effettuato in questi mesi, che può essere utilizzato dalle realtà pubbliche e private come:
- framework per il posizionamento dell’organizzazione rispetto al Management 2.0
- strumento per l’avvio di gap analysis su uno o più dei fattori considerati
- roadmap per un processo di sviluppo evolutivo (a livello macro e/o micro)
- modalità per organizzare le attività training, comunicazione, gestione hr, social innovation
- base per ordinare le community interne/esterne e identificare la necessità di costruirne di nuove.
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