“Le persone – si legge nell’Ottava Variazione Impermanente – cercano nel posto di lavoro un ambiente meraviglioso dove poter costruire qualcosa di nuovo, creativo, artistico, dove l’accoglienza, l’atmosfera, l’avventura siano garantite. Se dovessimo allora indicare un singolo fattore motivazionale cui riportare a un fondamento comune le due alternative, apparentemente antitetiche, indicate – una che muove dall’Umanesimo più estetizzante e inteso come territorio dell’armonia, degli equilibri, dell’uomo misura di tutte le cose, l’altra che scopre la versatilità umana, ambigua e tormentata, non nel perfetto corpo divaricato della famosa immagine leonardesca, quanto guardandone l’espressione corrucciata, tesa, insoddisfatta – esso potrebbe essere l’Autonomia, resa possibile da condizioni organizzative di Agio e dalla possibilità di realizzare la massima Autoespressione, valore umanistico per eccellenza.
Operare lungo la traccia epistemologica dell’Autonomia implica che l’impresa accetti e faccia sua una visione che non prospetta una descrizione definitiva e onnicomprensiva degli attori organizzativi. In cui la gestione aziendale è interessata a seguire, sul piano dell’esperienza diretta, quali caratteristiche specifiche gli esseri umani possono sviluppare. E’ una gestione della vita vivente e non della vita statica. Gli esseri umani conservano la loro autonomia, mutando in coerenza con le proprie caratteristiche vitali: il contesto manageriale può avviare, favorire, ma non costituire in toto il loro cammino evolutivo. Resta così aperta per gli esseri umani una crescita della propria auto-organizzazione, senza una necessaria connessione all’idea di un programma predefinito dettato.
Dalla prospettiva dell’Autonomia si vede con chiarezza che le imprese devono andare a costituire uno spazio nel quale le singolarità diverse trovino ospitalità in un collettivo comunitario. Agio è il nome proprio di questo spazio; il termine agio indica infatti, secondo il suo etimo, lo spazio accanto (ad-jacens, adjacentia), il luogo vuoto in cui è possibile per ciascuno muoversi liberamente, in una costellazione semantica in cui la prossimità spaziale confina col compito opportuno (ad-agio, aver agio) e la comodità con la giusta relazione. Agio come luogo da raggiungere, dove i singoli possono esprimersi attraverso quel «libero uso del proprio» che, secondo un’espressione di Hölderlin, è il «compito più difficile».
Se il riconoscimento è il bisogno individuale emergente nella società contemporanea, la libera Autoespressione è la motivazione individuale fondamentale; un mix gestionale qualitativo, riconoscente, con capacità di contenimento, dei fattori che caratterizzano gli attuali contesti di lavoro, è la condizione, per così dire irrinunciabile, perché l’Autoespressione del sé da possibilità divenga emergenza quotidiana”.
Daniel Pink letteralmente dimostra come l’incentivo materiale, nel caso specifico il denaro, non riesca a rispondere alla domanda di senso della persona come forza che la muove a dare il meglio di se. Cosa ancora più paradossale è l’asserzione, supportata da studi scientifici, di come in casi in cui il compito richieda componenti di creatività e problem solving, la ricompensa in denaro diventa addirittura un elemento di disturbo fortissimo. Cosa invece “libera” valore? Autonomia, padronanza e scopo. Elementi che sono fondanti il modello della Social Organization.
In questo quadro, scrivo in Una via umanistica a Facebook, “i Social Network come Facebook (ma questo vale anche per le piattaforme di Enterprise 2.0 interne alle aziende), se riescono a sfuggire ai rischi opposti dell’appiattimento digitale sul “mero reale” , da una parte, e dell’ossessiva compulsione ad apparire a tutti ed in ogni luogo sempre-e-comunque nella propria dimensione più luminosa, apollinea e superficiale, dall’altra, con la conseguente entropia di ogni possibile significato autentico, offrono a ciascuno la possibilità di rendere più profondo e articolato il proprio modello espressivo. Pensiamo a Omero: avendo a disposizione una memoria elettronica, il modello compositivo fondato sul montaggio di blocchi standard avrebbe potuto essere portato a più alti livelli di complessità e tutte le possibilità combinatorie teoricamente previste dal modello avrebbero potuto essere esplorate. E questo non viola l’autonomia dell’autore: ogni autore resta se stesso, libero di “chiudere” il testo come vuole: ovvero di comprendere, o di escludere, materiali narrativi e piste di lettura. Insomma: usando un word processor, Omero, come Dante o Proust, si sarebbe trovato a disposizione una più vasta gamma di materiali coerenti con il suo progetto, un repertorio più vasto di collegamenti tra gli elementi, senza che ciò venisse a togliere la facoltà di scegliere, confezionando una redazione finale, alcuni materiali, alcuni collegamenti. Vale l’analogia: come l’autore vede potenziata dall’information technology la sua autonomia creativa, altrettanto fa il manager. Le informazioni e le conoscenze non sono più chiuse in procedure, ma plasticamente messe a disposizione del decisore. Del creatore di mondi. L’individualità, la multi-individualità, è in entrambi i casi incrementata dalla protesi tecnologica”.
Accettare la sfida della social organization significa partire dal riconoscimento dell’Autonomia individuale. Solo la libera, autonoma, adesione del singolo alla value proposition della community aziendale può accendere la fiamma dell’Engagement. Anche per questo occorre sottrarsi all’influsso di quello Scientific Management che fu inaugurato da Taylor cento anni fa. “Pur nella varietà delle sue interpretazioni, i caposaldi dello Scientific Management sono, in breve sintesi, il primato della specializzazione funzionale, del principio gerarchico, degli obiettivi individuali, dell’orientamento al controllo, con una cultura diffusa nelle organizzazioni a coltivare standard interni per la valutazione del raggiungimento dei diversi compiti primari. Le organizzazioni ispirate e gestite attraverso le prospettive paradigmatiche dello Scientific Management si pongono come soggetti collettivi compatti, orientati da una razionalità piena, con una forte capacità previsiva e una visione lineare/sequenziale del processo decisionale.
Ma la condizione strutturale necessaria per la declinazione di tali paradigmi è la stabilità: con la progressiva accelerazione dei tempi del cambiamento e la necessità per le organizzazioni di essere permanentemente “mutanti”, gli strumenti di previsione, valutazione e controllo classici sono stati messi pesantemente in discussione. L’organizzazione vincente – suggerisce ad esempio Kevin Kelly nel suo libro programmaticamente intitolato Out of Control, che ha inaugurato un certo tipo di analisi con troppa fretta relegata fra il pattume pubblicistico della new economy: a) è una rete fatta di nodi autonomi e cooperanti; b) non risponde a una funzione di comando centralizzata; c) è in grado di autoprogettarsi. L’aporia del management contemporaneo diverrebbe quella di essere capace di perdere il controllo dell’organizzazione, sapendone conservare la guida.
Ci permettiamo dunque di sollevare quantomeno il dubbio che l’impresa contemporanea operi tanto più efficacemente quanto più “leggero” è il sistema di governo. Il sospetto è che l’adeguamento a un ordine predefinito e declinato in termini di rigidi e capillari strumenti di comando, valutazione e controllo rischia di atrofizzare la forza differenziatrice dell’organizzazione, che è proporzionale al grado di autonomia delle sue sinapsi, rendendola più vulnerabile.
Sospetto che si rafforza se pensiamo all’organizzazione come sforzo collettivo di generazione di senso e contesto discorsivo privilegiato. Secondo la prospettiva del sensemaking di Karl Weich, essa chiarisce i propri obiettivi e i ruoli delle parti coinvolte – diciamo: esplicita il proprio progetto – solo al termine del percorso discorsivo, non all’inizio. Il manager, quindi, cessa di essere colui che detta i significati al resto dell’organizzazione, colui che fornisce la corretta interpretazione degli obiettivi, dei ruoli e delle funzioni, magari attraverso un processo di envisioning più o meno manipolatorio, che dovrebbe essere sostituito da un approccio più vicino alla maieutica socratica. Si tratta di rinunciare alla proposizione di un ordine dettagliato, sostituita dalla diffusione di una “Vision” tale da consentire, tramite l’attivazione riflessiva e dialogica di tutte le persone che operano nell’impresa, l’adempimento della imprescindibile missione manageriale che resta pur duplice: favorire il conseguimento degli obiettivi dell’organizzazione, ma coniugandoli con quelli di autorealizzazione e autosviluppo delle persone che in essa lavorano.
E’ il cuore di ciò che da anni chiamiamo “humanistic management“.
Il modello organizzativo che ispira lo scientific management è olistico, totalitario, definitivo, prescrittivo, fondato sulla centralità del comando, su modelli, procedure e “best practices”, su un’attenzione ossessiva ai processi di esecuzione, sul controllo. Per usare le parole di Wislawa Szymborska, Finge di non tralasciare nulla,/di concentrare, includere, contenere e avere (Tutto). Viceversa, lo humanistic management è partecipativo, impermanente, fondato sulla convivialità, su uno “stare insieme per”, sulla delega agli individui e l’imprenditorialità diffusa, sulla “governance” di sistema e non sul “controllo” di dettaglio: nella convinzione che l’illusione di poter contenere “tutto” oggi più che mai si rivela tale” (in Da Le Città Invisibili… a Le Aziende InVisibili, 21. Nascondimento, parte seconda).
E’ quanto accade al Kublai di Calvino, di cui il Fordgates de Le Aziende InVisibili è la controfigura. “Come molti manager odierni, anche Kublai avverte la tentazione di sottrarsi alla fatica del sensemaking. Marco parla, ma Kublai sembra talvolta stanco di leggere i suoi racconti e vorrebbe stringere una volta per tutte il suo impero in una formula, averlo come un possesso chiuso per sempre: la vecchia utopia, si sottolinea in apertura di Nulla due volte, dello scientific manager come di quei generali romani immaginati da Szymborska che si sentono minacciati “da ogni nuovo orizzonte” e che, di fronte alla minaccia, non sanno che andare ciecamente avanti, nelle certezza disperata che “il mondo prima o poi deve pur finire” (Voci). Allo stesso modo, nonostante la sua ammirazione per il giovane veneziano, Kublai non sopporta la trama aperta delle sue narrazioni e vorrebbe cose dove invece sono soltanto parole, proprio come i responsabili delle organizzazioni descritte da Minghetti e Del Mare ne Le cose e le parole. Ma, come osserva Marco Polo, «non si deve mai confondere la città con il discorso che la descrive».
Per sfuggire al rischio del non senso Kublai tenta diverse strade, come diverse sono state le incarnazioni dello scientific management nel suo secolo di storia. Ad esempio ad un certo punto dice:
La mente del gran Kan partiva per suo conto e smontava le città pezzo per pezzo, le ricostruiva in un altro modo, sostituendo ingredienti spostandoli, invertendoli – D’ora in avanti sarò io a descrivere le città, tu verificherai se esistono e se sono come le ho pensate ─
L’intento dell’imperatore è quello di proporre schemi e modelli, da smontare e ricostruire, combinandone e variandone le strutture interne, conferendo ad essi (e non ai singoli individui) una sostanziale autonomia funzionalistica, schemi d’ordine a cui tutto deve essere ricondotto. La situazione da cui avevamo preso le mosse si è ribaltata: non è più l’esperienza, ma il potere combinatorio e intellettuale a garantire la mappa su cui poi dover ritrovare l’esperienza medesima. Abbiamo così Zobeide, città sognata e poi costruita, città quasi familiare poiché prevista, ma anche città brutta, città trappola. Che ne è infatti di questa proposta? Il sistema prevale cancellando le ragioni dell’esperienza, la costruzione si trasforma, come in Zobeide, in trappola, in inganno fine a se stesso” (in Dalle Città Invisibili alle Aziende In-Visibili. 3b. Segni – parte seconda).
L’illustrazione di Luigi Serafini è tratta da Le Aziende InVisibili, di Marco Minghetti & The Living Mutants Society, Libri Scheiwiller, 2008.
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