Il motore del cambiamento

Social&Digital Disruption

Un celebre video apparso su YouTube tre anni fa annunciava l’avvento di una “nuova normalità”: nel filmato apparivano in rapida sequenza i contestatari di Occupy Wall Street, un bacio lesbico, una parlamentare che partecipava ad una votazione tenendo in braccio il figlio piccolo… In altre parole, una sintesi dei profondi cambiamenti valoriali che stanno attraversando la società, realizzata non da qualche cineasta intellettualoide o da un estremista del web, ma dalla serissima Danske Bank.

Gli inappuntabili banchieri danesi ci stavano dicendo una cosa molto semplice: ciascuno di noi può pensare ciò che vuole dei matrimoni gay o delle primavere arabe, ma se, come manager o imprenditore, non si rende conto di quanto sta avvenendo o, peggio, lo respinge sulla base di un sistema valoriale che rispecchia una normalità ormai “vecchia”, perde il contatto con il mercato: con i consumatori, i clienti, i propri dipendenti. La famosa gaffe di Guido Barilla, che ha pubblicamente affermato di essere contrario ai matrimoni omosessuali,  ha fatto perdere alla sua azienda  una fetta consistente di consumatori che, essendo costituita da gay o lesbiche, ha visto troncato il rapporto identitario con il brand, ovvero con ciò che detta le vere motivazioni all’acquisto.

Fra l’altro, quel video della Danske Bank dedicava qualche frammento a celebrare Pistorius, all’epoca icona dello sport politically correct, oggi famigerato criminale internazionale: dalle stelle alle stalle in pochi mesi, ad ulteriore conferma che la nota affermazione secondo cui “sic transit gloria mundi” è oggi più valida che mai.

Qual’è allora il motore di questi continui e repentini cambiamenti nei sistemi valoriali, nei comportamenti d’acquisto, nelle preferenze verso un brand (personale o aziendale che sia)? Volendo trovare una risposta univoca, potremmo tentare di identificarlo in quella che oggi viene chiamata “Social&Digital Disruption”. Un fenomeno che viene da lontano, almeno dall’affermarsi del «Web 2.0», per usare il termine coniato nel settembre 2005 dal guru americano Tim O’Reilly. Si riferisce a una piattaforma partecipativa che trasforma il web da un’estensione del sistema dei mass media (basato sul broadcasting dei contenuti) a uno spazio basato su un nuovo ruolo dell’utente: dalla semplice lettura alla possibilità di contribuire popolando il web e alimentandolo con propri contenuti.

Il Web 2.0 rappresenta una rivoluzione copernicana perché mette l’utente al centro: i blog personali o collettivi, i social network, i wiki sono i principali ambienti che permettono agli utenti di generare contenuti. Ma nel Web 2.0 l’utente è al centro anche per la sua capacità di aggregare le informazioni e i servizi a cui è più interessato. Anziché navigare nella rete alla ricerca delle informazioni, l’utente può mettere insieme informazioni e servizi acquisiti dai siti di suo interesse, ormai non solo con strumenti per «addetti ai lavori», come i feed reader, ma anche attraverso applicazioni molto semplici come Instapaper, Paper.li, Scoop.it, Storify ecc., sempre più popolari.

L’affermarsi del Web 2.0 nei primi anni del 2000 (ricordiamo alcune date: nel 2004 nasce Facebook, nel 2005 YouTube, nel 2006 Twitter) porta Tapscott e Williams a coniare il termine Wikinomics. Partendo dalla universale diffusione di Wikipedia, ritraggono con estrema chiarezza «il mondo in cui milioni di persone interconnesse tramite email, blog, network, community e chat usano Internet come la prima piattaforma globale di scambio. È il mondo della collaborazione, della comunità, dell’auto-organizzazione che si trasformano in forza economica collettiva di dimensioni globali».

Il processo chiave della Wikinomics è la “co-generazione” di valore. Gli studiosi C. K. Prahalad e Venkat Ramaswamy introducono il concetto nel loro articolo del 2000 nella rivista Harvard Business Review, Co-Opting Customer Competence. Hanno quindi sviluppato le loro idee nel libro pubblicato dalla Harvard Business School Press, The Future of Competition, dove offrono esempi che comprendono Napster and Netflix, mostrando che i clienti/consumatori non sono più soddisfatti semplicemente dal dire si o no sulle decisioni di quello che una azienda offre. Il valore sara’ sempre più co-creato dall’azienda e dal consumatore/cliente, essi sostengono, anche se non totalmente creato all’interno dell’azienda. La co-creazione, dal loro punto di vista, non descrive solo una tendenza alla produzione/creazione condivisa delle soluzioni (prodotto/servizio). Essa descrive anche un passaggio dai clienti/consumatori che acquistano prodotti e servizi come transazioni a quelli che vedono questi acquisti come parte integrante della esperienza totale percepita.

Il fattore tecnologico non è dunque sufficiente a risolvere i problemi posti dalla serie complessa di fenomeni messi in moto dal Web 2.0 (come, oltre alla co-generazione di valore,   l’apprendimento collettivo o l’innovazione partecipata), che richiedono nuove modalità di intervento: informali, guidate dal basso, spontanee, contestuali. In tutte le aree aziendali la dimensione comunitaria o conviviale assume un ruolo crescente nella generazione di valore, rendendo necessaria la rivisitazione dei modelli di leadership e di governance.

D’altro canto, lo sviluppo dei nuovi modelli cognitivi e culturali viene ulteriormente accelerato dall’affermarsi del cosiddetto paradigma SoLoMo, acronimo che indica la convergenza tra:

Social: la condivisione delle informazioni all’interno delle reti sociali;

Local: geolocalizzazione, distinzione in base alla posizione o, meglio allo spazio fisico che ci circonda;

Mobile: in senso stretto implica il crescente uso, spesso sostitutivo, dello smartphone o del tablet piuttosto che del PC per le attività quotidiane.

Proprio la diffusione dei dispositivi di accesso mobili è il driver di questa convergenza. Nel bene e nel male stanno diventando il canale primario per memorizzare e condividere le informazioni su chi siamo, che cosa sappiamo, che cosa facciamo, dove siamo, dove siamo stati e dove intendiamo andare. Si costituiscono quindi come il veicolo privilegiato della “Sharing Economy”, in cui, al processo di co-generazione di valore, si affianca quello della “condivisione” di prodotti o servizi: macchine, moto, file musicali o video, tempo. In breve, qualsiasi cosa abbia un valore d’uso.

Dal “possesso all’accesso“, per usare uno slogan che riassume con efficacia un concetto che “viene usato per lo più a indicare piattaforme digitali che favoriscono l’uso, il noleggio, l’affitto, lo scambio di oggetti, servizi, spazi, tempi. In realtà si tratta di attività che si sono sempre fatte anche senza l’ausilio del web, ma che con internet vengono modificate in modo significativo. In particolare, ciò che cambia con la Rete è l’opportunità di entrare in contatto con persone nuove, che non si sono mai incontrate — e in alcuni casi non si incontreranno mai — e fare insieme cose che richiedono fiducia reciproca. In alcuni casi la piattaforma digitale si limita a razionalizzare e a estendere il raggio d’azione dei tradizionali servizi di noleggio. In altri casi a questo servizio si aggiunge una coloritura culturale che fa leva sulla trasformazione del valore del consumo nella nostra società: dal possesso all’accesso”.

Tutti questi fenomeni sono quindi entrati nell’alveo dell’attuale configurazione della Rete come Internet of Things, che, in sintesi potremmo definire come la risultante della somma di Mobile, Cloud e Big Data. In questo quadro, fra le molte altre cose,  i device mobili si trasformano in “wearables” (orologi, occhiali, oggetti portatili di vario genere e specie) mentre il modello economico si evolve nell’Economia On Demand o “Ubernomics“, che si connota come una ulteriore evoluzione di Wikinomics e Sharing Economy, qualificata dalla capacità di rispondere in tempo reale e a costi bassissimi a specifici bisogni quotidiani: un passaggio in automobile, il lavaggio dei panni sporchi, l’affitto di un appartamento per una notte.

La cosiddetta Social&Digital Disrpuption nasce da questo complesso terreno e ha portato all’affermazione sul mercato dei “Social Disruptors”: nuovi player dell’economia global (da Apple a Google, da AirB&B a Uber) che stanno rapidamente spazzando via aziende dominanti settori di business la cui natura è stata radicalmente trasformata in modi che alla vecchia classe dirigente appaiono incomprensibili.  E questo accade perchè ci si ostina a descrivere ed interpretare fenomeni totalmente nuovi con un linguaggio ottocentesco,ormai inadatto a fornire chiavi di lettura adeguate.

Qui nasce quella corrente di pensiero neoluddista, che da alcuni anni analizzo e discuto e che Pierluigi Battista ha descritto così: “Le autorità francesi che hanno arrestato due responsabili di Uber stanno ripetendo lo stesso gesto disperato di chi, all’alba della rivoluzione industriale, spaccava i nuovi telai meccanici per salvare l’integrità di un mondo che stava sparendo. Persero allora e perderanno adesso. La modernità industriale non si arrestò per i gesti dei luddisti. Oggi arrestano chi sfida monopoli e corporazioni. Ma la sentenza è già scritta. Tutto va avanti a velocità impetuosa, ma Uber, negli Stati Uniti, è già considerato un dinosauro da nuove e più spregiudicate «app» che saranno i nuovi dinosauri di dopodomani. È come se i costruttori di carrozze avessero chiesto l’intervento della polizia per bloccare la nascente industria automobilistica. Battaglie romantiche, come quelle degli spazzacamini travolti dalla nascita dei nuovi impianti di riscaldamento e dalle nuove cucine. Oggi il fronte dei conservatori che detestano la folla di nuove imprese da attivare digitando uno smartphone o un tablet è ampio, variegato. Mica solo i soliti tassisti. Protestano i grandi hotel perché con il cellulare sempre più persone cercano e trovano stanze senza intermediazioni e in pochi secondi. Boccheggiano le agenzie di viaggio perché basta una app per fare biglietti, costruire itinerari, prenotare aerei, organizzare spostamenti. La cantante Taylor Swift è diventata la beniamina di tutti gli addetti alle case discografiche terrorizzati dalla Apple che come Spotify permetterà con un abbonamento risibile di acquistare tutta la musica del mondo. Già l’irruzione di iTunes aveva destabilizzato quel mondo. Chissà se staranno meditando l’assalto a Cupertino. Le case automobilistiche guardano con apprensione al fenomeno del car sharing che oramai, nelle grandi città e per quelli che hanno meno di trent’anni, è diventato il modo più veloce e meno dispendioso per muoversi. Cominciano a protestare negli Stati Uniti le grandi compagnie dei pullman perché con una semplice app si sale su mezzi comodi e affidabili per ogni tratto di strada anche non contemplata dagli itinerari tracciati dai monopolisti del trasporto su ruota. Protestano gli scrittori che si ribellano contro Amazon che pratica politiche di sconti molto aggressive, che i consumatori amano perché rende più facile ed economica la strada verso un libro, ma che gli autori considerano un deplorevole cedimento alle ragioni del mercato e una minaccia alle belle librerie di una volta (che chiudono). Protestano le grandi tv perché con l’irruzione di Netflix, la televisione verrà consumata con modalità completamente diverse da quelle tradizionali. Protestano gli editori e i giornalisti perché i loro articoli, benché protetti dalla «riproduzione riservata», circolano gratuitamente per la Rete e ci sono applicazioni che già oggi permettono di sfogliare «il meglio di» senza passare per l’acquisto del giornale”.

Tipico esponente del giornalismo neoluddista è l’editorialista Federico Rampini. Qualche giorno fa ad esempio LaRepubblica ha pubblicato un articolo (cui ne sono seguiti altri dello stesso tenore), intitolato Facebook supera Wallmart. Così cambia l’America,  in cui fra l’altro si legge:

“A segnalare lo storico sorpasso è stato con molto fair-play il capo del gigante decaduto. Doug McMillon, chief executive di Walmart, in un’intervista alla Cnn ha reso un sincero omaggio a Facebook: «È l’impresa che più ammiro». McMillon ha espresso la sua ammirazione nel giorno in cui la capitalizzazione di Facebook raggiungeva i 245 miliardi di dollari. Con un rialzo superiore al 10% solo dall’inizio di quest’anno. Questo valore piazza Facebook ben 10 miliardi più su di Walmart, che ne capitalizza 235. Le traiettorie di queste due imprese divergono, mentre il social media ha continuato ad apprezzarsi, la catena di ipermercati ha perso il 15% del suo valore dall’inizio del 2015. Tra le cause del declino di Walmart c’è proprio l’economia digitale. Alcuni dei suoi rivali più temibili sono i protagonisti del commercio online, come Amazon.

Il sorpasso di Facebook avviene in una competizione non solo economica, ma valoriale. Walmart appartiene alla famiglia Walton, da sempre una dinastia di destra, finanziatrice dei repubblicani; avversaria dei sindacati al punto da metterli al bando nei propri luoghi di lavoro. Al contrario Facebook ha l’immagine “cool” che è tipica di chi opera in California, il suo fondatore e chief executive è considerato di sinistra su temi come i matrimoni gay e l’ambiente; Zuckerberg nelle attività filantropiche aiuta le ong che combattono la povertà. Ma dietro le apparenze, la sfida tra New e Old Economy riserva delle sorprese. Walmart viene da una solida tradizione di destra, però di recente ha ceduto alle pressioni di Barack Obama ed ha alzato i salari minimi dei suoi dipendenti. Facebook ha un’immagine di sinistra, ma la sindacalizzazione nei suoi ranghi è inesistente: come tanti Padroni della Rete, anche Zuckerberg viene da una cultura individualista, appartiene a una generazione che non sa cosa siano i sindacati, la contrattazione collettiva, i movimenti sociali. Poi c’è lo squilibrio di questi numeri: Walmart dà lavoro (sottopagato quanto si vuole) a 2,2 milioni di dipendenti. Facebook ne ha solo diecimila. È una sproporzione fra tutti gli attori della Old e della New Economy. Il capitalismo digitale, sofisticato e leggero, di lavoro ne crea poco e i suoi profitti si concentrano a beneficio di una élite”.

“Destra e sinistra”, “Old economy e New Economy”, Contrattazione collettiva e sindacalizzazione inesistente”: tutti concetti appartenenti ad un armamentario ideologico e culturale che si perde nella notte dei tempi e che inficia qualsiasi possibilità di arrivare a comprendere ciò di cui si sta parlando. Ad esempio: Facebook dà lavoro solo a 10.000 persone? Direttamente certo, ma quanti sono gli imprenditori, le startup, le grandi e piccole aziende che lo utilizzano per fare business e generare valore economico? Ammesso che del miliardo e trecentomila milioni di utenti solo una percentuale minima trovi di che vivere grazie a Facebook, questa percentuale sarebbe comunque costituita da un numero di persone che producono reddito molte volte superiore a quello dei dipendenti di  Wallmart ed in condizioni di autonomia, benessere, creatività incomparabilmente superiori.

Ancora: la nuova economia genera disoccupazione! Ma cosa significa oggi “occupazione”? Coloro che utilizzano ad esempio AirB&B (oltre 10 milioni di room-nights in 34.000 città e 192 paesi in tutto il mondo. Il nostro Belpaese è già il loro terzo mercato) chi sono? Dipendenti? Fornitori? Utenti? Testimonial? Tutto questo e molto altro ancora, in un insieme che risulta impenetrabile se si utilizzano le vecchie categorie del lavoro ottocentesco e porta a demonizzare e a rifuggire tutto ciò è legato a questi processi.

Ma per farlo occorre attrezzarsi con concetti nuovi e con nuove parole che li definiscono.

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