Istituzione Totale
Nel 1911, l’ingegnere Frederick Taylor pubblicava i Principi dello scientific management, opera che affondava le sue radici ne La ricchezza delle nazioni di Adam Smith ed era destinata ad avere una straordinaria importanza. Il modello operativo ma soprattutto mentale che veniva in questo testo sviluppato sarebbe infatti divenuto rapidamente non solo il riferimento imprescindibile delle teorie e delle prassi manageriali nell’ambito industriale, ma avrebbe pervaso le organizzazioni sociali a tutti i livelli.
Oggi quel modello e molto spesso le specifiche indicazioni operative date da Taylor (one best way, distinzione fra chi progetta e chi esegue, parcellizzazione delle attività, standardizzazione, eccetera) sono alla base del nostro vivere quotidiano sia all’interno che all’esterno del contesto lavorativo. Basta guardare le sequenze iniziali del primo mitico Fantozzi e confrontarle con le prime ore di ogni nostra giornata per avere una amara conferma di quanto il tayloristico modello Tempi e Metodi domini ogni aspetto della nostra esistenza.
La ragione di questo straordinario successo è ben descritta da Petrus, uno dei protagonisti del romanzo collettivo La Mente InVisibile: Taylor ha saputo dare consistenza (solidità, direbbe Bauman) in epoca moderna al “sogno dei costruttori di ordinamenti perfetti, di istituzioni totali, siano essi l’impero di Hammurabi o una cosca mafiosa: (quello) di poter disporre di sudditi perfettamente flessibili e del tutto autonomi, nel senso di semoventi, rispetto al compito e solo rispetto al compito. Sudditi religiosamente devoti oppure schiavi, iloti, meteci, liberti, servi della gleba, picciotti, operai manchesteriani, operai-massa, operai tayloristi, robot, manager integrati e integratori nella e della macchina organizzativa”[i].
Questo almeno sembra essere il sentimento dominante. Fra i giovani (ma anche fra i meno giovani) il disorientamento causato dal micidiale mix di crisi economica e disoccupazione è giunto ad un punto tale che persino la condanna a vita, “il lavoro fisso”, nell’archetipo per eccellenza dell’Istituzione Totale, il lager o Panopticon (ancora Bauman dixit) dell’azienda tayloristica, è preferibile all’insopportabile pressione della precarietà. E’ chiara “l’astuzia” degli scientific manager che governano un sistema ormai giunto al capolinea: prima conduce, come Lucignolo fa con Pinocchio, i giovani in un falso Paese dei Balocchi, tramite lo specchio deformante del Luna Park televisivo, che crea l’illusione di poter essere tutti “modelle o calciatori”; per poi, al momento dell’uscita dall’adolescenza, non lasciare loro altra scelta che l’incasellamento perpetuo nell’orribile Truman Show della vita reale. Così il suicidio, soluzione amletica che metaforicamente aleggia nell’opera di uno scrittore sensibilissimo come Wallace (e che è divenuta purtroppo ma non casualmente la sua scelta reale) corrisponde al suicidio esistenziale di chi non sapendo più individuare il discrimine fra aspirazione e illusione, finisce persino per trasformare Fantozzi in aspirazione.
Lo Humanistic Management fin dal suo apparire in Italia ha cercato di trovare delle strade che consentissero di evitare questa iattura. E quelle strade, che sono passate attraverso William Shakespeare, Wislawa Szymborska, Italo Calvino e, ultimo ma non meno importante, Lewis Carroll, hanno via via portato a mettere a fuoco un metodo molto simile proprio a quello di Carroll: pensare e, nel limite del possibile, agire esattamente al rovescio, rispetto alle modalità dominanti, ovvero proporre un approccio antitetico allo scientific management di Taylor. Che è quello che fa Alice fin dall’inizio: se è vero che “Lewis Carroll non fece mistero che il Coniglio Bianco era il Coniglio di un mago”[ii] e che per certi versi le avventura di Alice sono la messa in scena di un sublime spettacolo di magia, dove la bambina è l’assistente del Mago Carroll, ebbene l’incipit di Wonderland equivale ad una perfetta inversione: non sono il Mago e la sua assistente che tirano fuori il coniglio dal cilindro, ma, al contrario, è come se decidessero di inseguire l’animaletto dentro al cilindro per scoprire il magico mondo nascosto al suo interno.
Del resto tutte le Istituzioni Totali sono condannate ad implodere, a causa della loro intrinseca impossibilità ad aprirsi al mondo, ad anticipare o anche solo gestire il cambiamento. La conclamata crisi mondo occidentale sotto il profilo economico, sociale ed etico, sta lì a dimostrare il fallimento del modello taylorista di fronte alla complessità del mondo contemporaneo. Modellizzare, semplificare e puntare alla riduzione di incertezza si è rivelata una vacua illusione. In un contesto non lineare come quello attuale, è importante portare la complessità dentro l’organizzazione, complessificare quindi l’azione manageriale, moltiplicare i punti di osservazione, le esplorazioni e gli indirizzi, senza limitarsi a seguire pedissequamente la strada indicata dalla One Best Way. Il fisico e cibernetico Heinz von Forster per affrontare la complessità suggeriva di “agire sempre in maniera che il numero delle possibilità cresca”. Lungi dal ridurre le menti pensanti, occorre moltiplicarle, lungi dal scegliere un’unica via, occorre stimolare la continua e contemporanea ricerca di nuove vie, lungi dal ricercare l’omogeneità comportamentale, occorre favorire la diversità, accoglierla, integrarla, farla propria. Più che puntare all’organizzazione delle persone, occorre mirare a far emergere dinamiche di auto-organizzazione all’interno dell’impresa. Quello che lo Humanistic Management definisce il suo Mondo Vitale.
Perché ciò accada è essenziale l’individuazione di un “significato”, un significato frutto dei un processo di costruzione individuale e collettiva (sensemaking): di ciò che Wisława Szymborska, nel discorso pronunciato in occasione del conferimento del premio Nobel per la Letteratura, definisce ispirazione. “L’ispirazione non è un privilegio esclusivo dei poeti o degli artisti in genere. C’è, c’è stato e sempre ci sarà un gruppo di individui visitati dall’ispirazione. Sono tutti quelli che coscientemente si scelgono un lavoro e lo svolgono con passione e fantasia. Ci sono medici siffatti, ci sono giardinieri siffatti, ci sono pedagoghi siffatti e ancora un centinaio di altre professioni”. Tuttavia, prosegue, “di persone così non ce ne sono molte. La maggioranza degli abitanti di questa terra lavora per procurarsi da vivere, lavora perché deve. Non sono essi a scegliersi il lavoro per passione, sono le circostanze della vita che scelgono per loro. Un lavoro non amato, un lavoro che annoia, apprezzato solo perché comunque non è a tutti accessibile, è una delle più grandi sventure umane. E nulla lascia presagire che i prossimi secoli apporteranno in questo campo un qualche felice cambiamento”. La scrittrice polacca è dunque pessimista sulla possibilità di dare dignità ed interesse al lavoro della maggior parte di noi. Ma occorre rispondere a questa esigenza. Accanto agli altri ambiti della vita (famiglia, tempo libero, gruppi sociali) gli individui soddisfano le proprie aspettative di realizzazione, sviluppo, relazione e, dunque, costruiscono la propria identità soprattutto nell’ambito lavorativo.E’ questa forse la sfida più importante cui vuole rispondere lo Humanistic Management.
[i] Prima edizione ilmiolibro giugno 2011, p. 283.
[ii] Fischer, La magia di Lewis Carroll, THEORIA, 1986 (CONFINI), p. 36.
L’illustrazione di Luigi Serafini è tratta da Le Aziende InVisibili, di Marco Minghetti & The Living Mutants Society, Libri Scheiwiller, 2008.
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