Decima Variazione. Il leader è un autore, un regista e un primo attore. Nel contempo esprime una leadership “debole”, la cui essenza non sta nel dirigere, ma nel “lasciar fluire” i processi, le attività, i comportamenti, lungo un percorso di cui ha chiara la meta: non impegnarsi a produrre di più, bensì comprendere cosa, come e perché produrre.
La leadership di un manager “umanista” si fonda in primo luogo sulla capacità di promuovere e condividere la riflessione sui mezzi e i rischi per fare le cose (progettualità condivisa). Inoltre è importante la condivisione della conoscenza, come fonte di possibilità esplorabili, di cui occorre riconoscere la specificità, ossia l’esigenza di rendere dialogico, non gerarchico, non unidirezionale, il suo uso: la conoscenza non è sottoponibile a gerarchia (perché perderebbe la sua efficacia). Perciò va ammessa e valorizzata anche se spesso scomoda e non immediatamente utile.
Più in generale, la messa in crisi delle vecchie gerarchie è strettamente connessa al fallimento del concetto di ordine sottostante al paradigma scientifico del management. Sul piano politico, avere una Visione, indicare una meta, presidiare i fini istituzionali dell’organizzazione non significa che per ordine si debba intendere il disegno predeterminato di chi, per diritto statutario, governa l’organizzazione: il manager, appunto. E l’idea parallela che, contrapposto all’ordine, esista solo il caos e quindi la dissoluzione dell’organizzazione. Tale concezione si porta dietro la necessità del comando (attraverso il quale il manager impone il proprio ordine all’organizzazione) e delcontrollo (esercitato allo scopo di verificare che l’ordine sia raggiunto e mantenuto).
In un contesto turbolento (ovvero soggetto a cambiamenti estremamente rapidi e caratterizzato da un’elevatissima competitività), la capacità di ricevere la massima quantità di stimoli esterni e di elaborarli tempestivamente, per adottare di volta in volta il profilo più appropriato, sembra invece essere inversamente proporzionale all’intensità del comando e del controllo. L’organizzazione vincente – suggerisce Kevin Kelly nel suo libro programmaticamente intitolato Out of Control a) è una rete fatta di nodi autonomi e cooperanti; b) non risponde a una funzione di comando centralizzata; c) è in grado di autoprogettarsi[50].
L’aporia del management umanistico è quella di un manager capace di perdere il controllo dell’organizzazione, sapendone conservare la guida. Mantenere la guida significa sostenere la missione e il ruolo istituzionale dell’organizzazione, difenderne l’integrità, garantire l’assolvimento della sua responsabilità sociale, supportare gli individui nelle tensioni derivanti dalle pratiche di autosviluppo personale. Perdere il controllo vuol dire rinunciare alla pretesa di determinare un ordine a priori e di presidiarlo nei minimi dettagli. Questo non significa il sopravvento del caos e la disintegrazione dell’impresa. Senza enfatizzare troppo l’idea di Kelly, che fra l’altro è pesantamente influenzata da un paradigma “scientifico” di tipo biologico-organicista, è pur vero che l’organizzazione ha un proprio ordine. Per meglio dire: si dà un ordine, lo scopre al suo interno, se lasciata libera di agire entro i limiti dettati dalla necessità di mantenerne la forma generale, l’identità specifica determinata da fattori quali le dimensioni, la tipologia di attività, il grado di internazionalizzazione, i sistemi giuridici, politici e sociali entro cui inter-agisce, la sua stessa storia, che è poi la storia degli individui che la hanno creata e la ri-creano quotidianamente. Viceversa, l’adeguamento a un ordine predefinito e declinato in termini di rigidi e capillari strumenti di comando, valutazione e controllo rischia di atrofizzare la forza differenziatrice dell’organizzazione, che è proporzionale al grado di autonomia delle sue sinapsi, rendendola più vulnerabile.
Il modello si comprende meglio passando dal piano politico a quello più squisitamente epistemologico. Se dobbiamo pensare all’organizzazione come sforzo collettivo di generazione di senso e contesto discorsivo privilegiato, secondo la prospettiva del sensemaking di Karl Weich, essa chiarisce i propri obiettivi e i ruoli delle parti coinvolte – diciamo: esplicita il proprio progetto – solo al termine del percorso discorsivo, non all’inizio[51]. Il manager, quindi, cessa di essere colui che detta i significati al resto dell’organizzazione, colui che fornisce la corretta interpretazione degli obiettivi, dei ruoli e delle funzioni, magari attraverso un processo di envisioning più o meno manipolatorio, che dovrebbe essere sostituito da un approccio più vicino alla maieutica socratica. Anche in questo caso, potremmo parlare di rinuncia alla proposizione di un ordine dettagliato (di tipo cognitivo), sostituita dalla diffusione di una “Vision” tale da consentire, tramite l’attivazione riflessiva e dialogica di tutte le persone che operano nell’impresa, l’adempimento del primario doppio compito manageriale: favorire il conseguimento degli obiettivi dell’organizzazione coniugandoli con quelli di autorealizzazione e autosviluppo delle persone che in essa lavorano.
È facile intuire quanto sia complesso, per il management contemporaneo, fare i conti con l’aporia della “guida senza controllo” e gettare alle ortiche buona parte di quella strumentazione che fino a oggi gli ha garantito l’esercizio del potere. L’approccio umanistico ha una sua coerenza rispetto al profilo manageriale fin qui descritto, nella misura in cui rimanda a una tradizione discorsiva della costruzione della verità, che ha il proprio fondamento nell’ars retorica[52]. A tal fine la leadership può e deve svolgere una coerente serie di azioni volte a mantenere costante nell’organizzazione di cui è responsabile un certo livello di simbolizzazione[53]: “l’efficacia di un leader si fonda sulla sua capacità di rendere significativa l’attività per coloro che hanno con lui relazioni di ruolo, non modificando i loro comportamenti, ma dando loro la sensazione di capire che cosa stiano facendo e, soprattutto, articolandola in modo che essi possano comunicare i significati del proprio comportamento”[54].
La dialogicità che va oltre la gerarchia impone quindi al leader di muoversi con disinvoltura entrando ed uscendo da ruoli diversi. O agendone più d’uno contemporaneamente. Gasmann diceva di aver contattato il suo limite artistico nei momenti in cui aveva scelto di essere nello stesso tempo regista e attore di uno spettacolo. I grandi registi, quando hanno deciso di essere interpreti di una loro opera, e viceversa i grandi attori, quando hanno voluto essere anche registi, hanno spesso incontrato il fallimento. Essere nel contempo creativi, registi e protagonisti è sfidante e complesso. Eppure è proprio ciò che oggi si richiede ai manager.
Ma come fare ad essere insieme autore, regista e primoattore? Arricchendo la propria percezione di punti di vista. Si tratta di vedere l’azienda tramite un set di telecamere che offrano plurime prospettive (il primo piano e la panoramica, l’immagine in movimento e l’effetto ottico), ed una sempre puntata su sé stessi. Di sostituire insomma il controllo burocratico con il monitoraggio costante, l’attenzione ai segnali deboli, l’osservazione dei molteplici livelli della realtà organizzativa. E il comando con la cura, ovvero la comprensione dei bisogni delle singole persone che partecipano al progetto.
Si afferma in sintesi una ‘leadership debole’, caratterizzata dalla capacità di ‘stare in situazione’. Esemplari le parole di Tolstoi in Guerra e pace, lì dove si contrappone Kutuzov a Napoleone. La leadership napoleonica è, oggi, tendenzialmente inefficace ed anzi dannosa. Si fonda su un delirio di onnipotenza. La tensione verso l’onnipotenza è dannosa. L’illusione di essere il deus ex machina, di fronte ai sistemi complessi – di cui facciamo parte, e che non possiamo osservare mai dall’esterno – è fallace. L’illusione napoleonica si fonda sull’esistenza della best practice, della soluzione ottimale. Mentre la natura dei sistemi complessi contempla solo soluzioni sub ottimali – molte soluzioni abbastanza buone, nessuna la migliore.
Non c’è un rapporto di causa-effetto tra le scelte del manager e la prassi aziendale. I risultati non discendono da geniali scelte del manager. Né le decisioni del manager sono risposte dirette a domande dell’organizzazione. Nel cuore delle organizzazioni di successo vigono soltanto sincronismi. Il successo gestionale nasce da un incontro che non può essere forzato, da una felice coincidenza – in apparenza casuale – tra comportamenti del manager e comportamenti spontanei dell’organizzazione. Il management è divinazione tempestiva di ciò che è fattibile ed adeguato.
[50] Kelly, 1994.
[51] Weick, 1995.
[52] cfr. C. Perelman e L. Olbrechts-Tyteca, 1958.
[53] Selznick 1957, Pondy 1978, Weick 1969, Pfeffer 1981.
[54] Questa citazione di Pondy (Pondy 1978) viene dalla lettura di un saggio di Pfeffer in Gagliardi 1986.
L’illustrazione Il Giovane Principe Ali Khan è di Stefano Faravelli
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