Quarta Variazione. La modernità apollinea organizzata secondo i canoni dello Scientific Management è una straordinaria fonte di creazione e di replicazione della conoscenza: entra però in crisi quando la complessità, messa in movimento sempre più rapido dagli “apprendisti stregoni” del fordismo e dai loro epigoni, risulta maggiore dei mezzi di controllo disponibili.
Sono trascorsi quasi trent’anni da quando Charles Handy ha dato per la prima volta alle stampe quello che è poi divenuto un classico della letteratura manageriale: Gli dei del management[15]. In questo testo gli stili di organizzazione e cultura aziendale vengono ricondotti a quattro archetipi, identificati in quattro dei della mitologia greca. Ma la vera contrapposizione è fra il modello apollineo (in cui Apollo, dio dell’ordine e della burocrazia, diviene il simbolo dell’impresa basata sul controllo correlato alla rigida definizione dei compiti) e quello dionisiaco (in cui si preferisce la creatività alla standardizzazione, la diversità all’omologazione, l’individuo alla macchina). Già nel 1978 Handy denunciava il delinearsi della crescente crisi delle aziende apollinee, focalizzate sulla ricerca di una sempre maggiore dimensione e coerenza, ma destinate a scontrarsi con il bisogno degli individui di avere maggiori spazi di espressione personale. “E’ un conflitto che Apollo non può vincere. Se le aziende vogliono sopravvivere, devono adattare la loro filosofia manageriale ad un orientamento più consono ai bisogni, alle aspirazioni e agli atteggiamenti degli individui. Nel nuovo mix di dei che ne risulterà, Apollo sarà meno dominante e meno disumano”[16].
L’attualità delle intuizioni di Handy è sotto gli occhi di tutti, ma il modello apollineo continua a prevalere, nonostante la tanta retorica fatta sull’importanza cruciale dei “lavoratori della conoscenza”, della formazione continua, della “centralità” delle risorse umane, la cui traduzione pratica dovrebbe far acquisire all’azienda connotati sempre più dionisiaci.
Un’altra contraddizione dell’azienda contemporanea, collegata alla precedente, è quella che ne L’impresa shakespeariana è riportata come opposizione fra “cloni” e “mutanti”.[17] Per comprenderla è sufficiente richiamare l’idea secondo cui sarebbe in atto la “guerra dei talenti”: un’idea introdotta dalle grandi società di consulenza internazionale per vendere alle aziende una serie di servizi (strumenti di selezione, politiche diretention, strumenti per l’individuazione degli alti potenziali, etc.) finalizzati ad attrarre e trattenere le risorse migliori. Nella realtà assistiamo al fallimento di molti dei programmi avviati dalle imprese in questo campo. La ragione va ricercata proprio nel fatto che esse, in gran parte, sono ancora rigidamente apollinee e si fondano su modelli organizzativi e gestionali adeguati non a valorizzare gli individui di talento, le personalità originali, bensì a trattare le persone alla stregua di cloni, ripetitori razionali di compiti e mansioni.
L’opposizione “cloni-mutanti”, ovvero “risorse umane-persone”, è dunque uno spartiacque fondamentale fra lo humanistic management e lo Scientific Management. L’esempio può essere dato da un articolo apparso suSviluppo e Organizzazione, a firma di Sidney G. Winter e Gabriel Szulanski. Il pezzo è intitolato “La replicazione come strategia”. Gli autori ci informano che “la replicazione, fenomeno familiare come ‘approccio McDonald’, è una strategia perseguita da un gran numero di imprese attive in almeno sessanta settori”, dolendosi del fatto che “sebbene quella della replicazione stia diventando una delle forme organizzative del nostro tempo, essa è stata dimenticata dagli studiosi di organizzazione”.
Per Winter e Sluzanski, inoltre, “le strategie di replicazione hanno una certa somiglianza con la diffusione delle innovazioni in una popolazione organizzativa in quanto comportano trasferimenti di conoscenza di ampia portata”: esse infatti “si basano sulla creazione di outlet in grado di produrre automaticamente il loro prodotto o servizio”. Il caso più eclatante è appunto dato dai fast food, “che producono volumi di cibo che sono cinque volte maggiori di quelli di un ristorante medio e che utilizzano prevalentemente procedure standardizzate pensate per lavoratori non qualificati”. [18]
Dietro questo ragionamento, vi è la concezione dello Scientific Management inteso come evoluzione di un precedente meccanismo di governo della complessità, inaugurato dalla modernità e vigente per tutto l’ottocento. Questo meccanismo consiste nella delega delle decisioni ad automatismi di grande potenza come la tecnica (ottimizzazione tecnologica), il mercato (ottimizzazione economica), lo Stato di diritto (conformità alle norme). Tre riduttori della complessità che hanno la caratteristica di essere astratti e autoreferenti, nel senso che selezionano le alternative possibili di produzione e di vita in base a criteri interni a ciascuna sfera di azione (tecnica, economica, normativa) e, ovviamente, uni-dimensionali, essendo riportati a parametri tecnici, economici, politici ecc., che non si integrano tra loro, ma dominano spazi diversi dell’ambiente e del comportamento sociale. Ogni sfera d’azione aspira a presentarsi come una forma di razionalità oggettiva, non discutibile, perché basata su ottimizzazioni misurabili oggettivamente.
Gli automatismi autoreferenti sono formidabili strumenti di creazione e di replicazione della conoscenza. La forza produttivistica della modernità consiste in questo rapporto privilegiato tra esigenze di innovazione/replicazione della conoscenza e forme sociali che la rendono possibile. Nel mondo premoderno, la conoscenza era immersa nell’humus sociale e umano organizzato intorno al principio gerarchico del conoscere per autorità, rivelazione, tradizione. La conoscenza esisteva ma non riusciva a rompere facilmente col vecchio tramandato dalla storia e quando diventava innovazione non riusciva a tradurla in valore economico, a causa delle difficoltà di validazione/replicazione. Risultato: non c’era spazio per investire in conoscenza, ossia per impiegare uomini e mezzi nella ricerca, nella sperimentazione, nell’applicazione sistematica del nuovo e del possibile.
Gli automatismi emersi con la modernità “liberano”, invece, le energie dalle precedenti sudditanze e forniscono, in base ai criteri di misura e ottimizzazione uni-dimensionali, l’ambiente adatto per innovare e replicare le conoscenze innovative che “funzionano”. L’economia comincia dunque ad investire nella produzione/propagazione della conoscenza e a farne una forza produttiva. Sia pure con qualche sconquasso, la complessità del mondo viene scomposta e messa al servizio di un criterio di produttività.
Nel disegno storico della prima modernità c’erano tuttavia due punti deboli:
1) La modernità usa la conoscenza per alimentare i tre automatismi autoreferenti messi in azione, ma la conoscenza non è qualcosa di facilmente addomesticabile. Essa diventa risorsa tecnica, risorsa economica, risorsa normativa, ma, se vuole essere conoscenza “vera” non può essere vincolata a questi tre criteri. La conoscenza, per essere affidabile, deve essere critica, o ammettere meta-conoscenze critiche che non sono finalizzate a generare effetti utili nei tre campi canonici, ma, semmai a verificare e dinamicizzare le strutture esistenti. La conoscenza è anche un potente principio di destrutturazione, perché trasforma tutte le strutture in risultati provvisori, in processi costruttivi che devono essere continuamente re-inventati, impedendo una loro stabilizzazione. Dunque la conoscenza genera sistematicamente una complessità di varianti, cambiamenti, indeterminazioni che eccede il fabbisogno corrente degli usi.
2) Mentre la prima modernità, quella dell’economia di mercato dell’ottocento, scopre presto i suoi limiti nella gestione della complessità, riuscendo a meccanizzare solo operazioni semplici; lo Scientific Management che il fordismo mette in campo nel novecento prova invece a governare la complessità sincronizzando conoscenze tecniche, economiche e normative in sistemi esperti di grande dimensione, in cui le diverse competenze richieste sono disciplinate e coltivate ad un adeguato livello di specializzazione. Il problema è che i tre meccanismi distinti della tecnologia, dell’economia e della regolazione normativa erano costruiti per essere autonomi, invincibili in termini di produttività parziali (nei singoli campi), ma non coordinati tra loro. Essi danno luogo così a impulsi divergenti e restano ingestibili in tutte le situazioni che richiedono cambiamenti complessi e simultanei in tutte e tre le sfere. Nasce in questo modo il passaggio, nel novecento, ad una diversa organizzazione degli automatismi: quella basata sul ruolo connettivo del management. Il management diviene un principio di connessione tra sfere (che restano autonome e indipendenti): il suo compito è quello di finalizzare in modo coordinato (programmato) l’avanzamento tecnologico, le scelte economiche, i comportamenti normati, sia dallo Stato che dalle grandi organizzazioni.
Lo Scientific Management, dunque, è, insieme, sapere tecnico, razionalità economica, potere organizzativo e istituzionale. Esso ri-soggettivizza la modernità, rimettendo l’intelligenza finalizzatrice dell’uomo nei punti di intersezione dei tre meccanismi autonomi che alimentano il “progresso” moderno. Ma al tempo stesso limita questa ri-soggettivizzazione ad un ruolo tecnico, neutrale: per deontologia professionale e per i concreti vincoli entro cui si muove, il management “deve” servire il corretto svilupparsi dei tre meccanismi che intreccia, senza distorcerne la funzione a proprio vantaggio. La delega agli automatismi diventa delega ai sistemi esperti, ossia alle tecnostrutture private e pubbliche che concentrano sapere, mezzi economici e potere decisionale.
I sistemi esperti aggiungono alla forza autoreferente del meccanismo a cui fanno capo (tecnica, mercato, norme) la negoziazione con i diversi stakeholders, ossia un principio che mira a completare il potere previsivo e di controllo degli automatismi iniziali, perché i managers del capitalismo organizzato, modello fordista, hanno soprattutto bisogno di una cosa: la stabilità.
In un certo senso, lo Scientific Management è il naturale compimento della modernità: esso fornisce la negoziazione neutrale a completamento della forza previsiva/regolativa fornita dai tre automatismi di base della società moderna. Ma ha un punto debole: la sua funzione politica può “consumare” più produttività di quanta ne crea. Il potere esercitato dalle tecnostrutture, anche nell’interesse “generale” (non sempre è così), suscita ovviamente contropotere, perché gli interessi si organizzano per contare di più e, in questo modo, espropriano gli automatismi e mettono in discussione l’efficacia e l’autonomia del management nel suo ruolo di mediazione “scientifica” (ossia neutrale).
La crisi interviene (dagli anni settanta in poi) sia perché la complessità messa in movimento dallo Scientific Management del fordismo risulta alla fine maggiore dei mezzi di controllo disponibili, sia perché si esce da una situazione di povertà e dunque di subordinazione al necessario. Da un certo momento in poi la legittimazione della razionalità tecnica, economica, normativa non può più essere realizzata sul terreno della “convenienza” misurabile, oggettiva, ma su terreni di creazione del valore che riguardano i desideri, le emozioni, l’immaginazione individuale e collettiva. I soggetti sociali non possono più delegare ad altri lo sviluppo di disegni di vita che dipendono dalle aspirazioni e azioni di ciascuno, che si situano nei contesti differenziati e molteplici che ciascuno ha in mente e che l’automatismo o l’esperto non riesce a vedere e non intende comunque seguire nel dettaglio.[19]
[15] Handy, 1978 e Minghetti, 2002, pp. 20-27.
[16] Handy, op. cit., trad. it. 1993, p. 9.
[17] Minghetti, 2002, pp. 124-153.
[18] Winter e Szulanski, 2002.
[19] I temi sintetizzati in questa Variazione sono ampiamente sviluppati da Enzo Rullani nel suo contributo al presente volume.
L’illustrazione Calidarium è di Stefano Faravelli
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