Quindicesima Variazione. Il management dell’impresa deve essere orientato all’etica della responsabilità. Un’etica che si interroga continuamente sulle conseguenze che le proprie azioni possono produrre nell’altro e sull’assunzione responsabile del rischi.
Gli automatismi della prima modernità uccidevano la persona trasformandola in un soggetto astratto, che popola i mondi della tecnica, dell’economia, delle istituzioni. Lo Scientific Management ha recuperato una parte delle autonomie personali attraverso la politica o meglio attraverso la partecipazione corporativa alla costruzione della politica: la gente – non solo gli operai, ma anche i professionisti – si è sentita di appartenere ad un gruppo, ad una categoria rappresentata nel negoziato sociale.
La postmodernità, rompendo il circuito delle appartenenze a priori (politiche o corporative) ha ridato fiato all’individualità, ma in forme disperse e un po’ anarchiche.
La contemporaneità riflessiva immette le persone entro circuiti che riguardano la valutazione e l’attribuzione di responsabilità e di senso agli effetti degli automatismi e dei sistemi esperti messi in funzione. Sotto questo profilo, uno scandalo singolare nel più generale scandalo Parmalat è la dichiarazione giustificatoria dei top manager di essere semplici esecutori degli ordini del padrone. L’etica dei professionisti dell’impresa è invece quella della consapevole e responsabile assunzione di rischio quale conditio sine qua non per la spendita dei propri talenti: da moltiplicare e da allocare a sostegno della vocazione di servizio dell’impresa.
L’etica diventa importante, così come l’immaginazione: tutte e due, però, non in forme estemporanee ma condivise. Le persone diventano il centro di un capitalismo personale che chiede loro di investire su se stesse e a proprio rischio. E le persone possono farlo solo se vivono in comunità epistemiche e pratiche che consentono loro l’esercizio di queste funzioni (riflessione, condivisione, correzione delle premesse, creazione di nuove identità).
Rischiare in maniera condivisa, dialogica, significa progettare insieme la propria interdipendenza, spiegando agli altri le ragioni del proprio modo di vedere i rischi e di assegnare significati. Rischiare significa mutualismo e inclusione, non solo concorrenza. Rischiare significa immaginare il possibile e l’imprevisto, dando un significato condiviso, spendibile sul mercato tecnico, economico, politico a queste produzioni immaginarie. L’impresa che emerge dalla contemporaneità riflessiva è una unità in cui si assumono rischi, che sono stati dialogicamente giustificati dai soggetti che vi partecipano (sia pure in ruoli differenti), esistendo delle procedure e delle condizioni materiali che permettono alle persone coinvolte di riaprire il dialogo iniziale, di cercare nuove giustificazioni, di realizzare nuove ragioni per lo stare insieme (o lo sciogliere l’unione iniziale). Anche per questa via si ribadisce la missione etica, che diviene allora imperativo, per chi ha potere decisionale e d’indirizzo, da porre a fondamento di qualsivoglia Vision: fare del sistema produttivo ‘impresa’ una comunità di lavoro, un convivio, uno ‘stare insieme per’. [64]
Il senso dell’espressione è duplice. Intanto, lo “stare insieme” non è una semplice convivialità come quella di un gruppo di amici. Nel mondo vitale produttivo c’è la disciplina del fine da raggiungere, ben determinato negli standard, nei tempi, nella qualità, nella rispondenza al mercato. Ma c’è di più. C’è una finalizzazione personale; la consapevolezza del proprio apporto; il senso di pienezza della partecipazione e della contribuzione; la responsabilità riflessivamente condivisa. E questo è il “per”. Avviene da sempre nei sistemi produttivi a interazione labile e a performatività forte: una compagnia teatrale, un’orchestra sinfonica, un quartetto d’archi, un laboratorio artigiano. Avviene già oggi nei sistemi produttivi a interazione forte e a performatività se non debole, standard: uno studio professionale, un gruppo di ricerca, un’agenzia di pubblicità, una cooperativa di informatici che produce software o web design, una banca d’investimento, una Sim.
“Questa è utopia!” Sicuramente lo è.[65] Come l’habeas corpus, la Magna Charta, l’abolizione della schiavitù, il suffragio universale, la fine del colonialismo e dell’apartheid, la condanna costituzionale del razzismo, le pari opportunità. Il cammino dell’utopia coincide con il progresso della civiltà. Chiudiamo con una testimonianza di colui che è forse il più grande innovatore nel campo della scienza organizzativa, Jonathan Swift. Egli era un conservatore e un aristocratico. Aveva però capito che il controllo, la gerarchia, il fiscalismo sono destinati all’insuccesso e, in aggiunta, a scatenare una devastante, incontrollabile controffensiva secondo una tecnica guerrigliera avanti lettera. Sapeva anche che anche i più aperti tra i suoi colleghi di classe sociale e politica, i tories, consideravano le proposte di riforma sociale che all’inizio del 700 cominciavano ad apparire, unworkable utopias. Ma egli era convinto che, nonostante tutto, fossero l’unica alternativa al sabotaggio sistematico dei sottoposti. Dà tuttavia voce, nei Viaggi di Gulliver, ai filosofi dell’Accademia di Lagado, quasi a smentita di se stesso e in appoggio agli scettici.
“Quei disgraziati architettavano nientemeno che dei disegni per persuadere i Sovrani a scegliersi i favoriti fra la gente più assennata, capace e virtuosa; per insegnare ai ministri a consultare il pubblico bene; per compensare il merito, le grandi abilità, i servigi eminenti; per fare capire ai principi che il loro interesse coincide con quello del popolo; per affidare gli uffici ai competenti; e per altrettali pazze chimere, mai saltate prima in mente d’uomo, le quali, se mai, servirono solo a darmi conferma di ciò che ab antico è stato osservato: non esservi nulla di così stravagante e irrazionale che certi filosofi non sostengano come la verità stessa”.[66]
Swift era convinto che l’uomo, pur non essendo un animale razionale, era tuttavia “capace di ragione.” In base a tale convinzione minimale, egli portava avanti il suo discorso e, alla fine, riscattava il suo pessimismo. Non ascoltare i filosofi di Lagado avrebbe avuto come unico risultato lasciare il mondo com’era.
[64] Cfr. P. Trupia, Carta Etica di Boeringher Ingelheim (documento interno).
[65] In questo senso, se condividiamo in buona misura la proposta di Hans Jonas, che presenta il suo Principio responsabilità come terza via praticabile tra indecidibilità e impotenza, non ne condividiamo la critica dell’ideale utopico.
[66] Pag. 237, in Opere, I Meridiani , Mondadori, 1983.
L’illustrazione Luogo dei tesori è di Stefano Faravelli
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