Seconda Variazione. Il meccanismo schiacciasassi della modernità, macchina per la produttività che deresponsabilizza gli attori e depotenzia la politica, nasce già con delle crepe, invisibili alla superficie, che minano irreparabilmente le fondamenta di quello Scientific Management che di essa è una delle espressioni estreme.
Senza ambizioni esaustive, si può affermare che la modernità sia il patrimonio di idee e di prassi che abbiamo ricevuto in eredità dall’Illuminismo[6] e dalla Rivoluzione Francese. La modernità, che contiene i tratti della razionalità scientifica e della tecnologia, si caratterizza con la scoperta della produzione durante la prima rivoluzione industriale. A livello delle società civili, coincide con la nascita degli stati nazione in tutto l’Occidente e l’avvio delle forme democratiche di governo. La modernità, ancora, si nutre di una fiducia profonda nel perfezionamento lineare, in un progresso senza limiti, che il positivismo, l’illuminismo e la fenomenologia dello spirito nutrono coerentemente. La modernità come ideologia trova poi il suo nucleo seminale in ciò che è accaduto in Europa tra l’ultimo quarto del XIX secolo e lo scoppio della prima guerra mondiale. In quei 40 anni la modernità si è definita come ideologia e, come tale, ha guadagnato il consenso non solo delle élites, ma di vasti strati della popolazione. Dunque modernità è: (ideologia di) progresso, tecnica, emancipazione, industria, città,… Pre-moderno è: tradizione, metafisica, conservazione, agricoltura… La fabbrica è moderna. La bottega è pre-moderna.
Soprattutto è l’approccio dicotomico ad essere centrale nella costruzione e nel consolidamento del concetto di modernità. Per l’esperienza organizzativa le dicotomie più importanti sono quelle tra pianificazione strategica e azione, tra razionalità ed emozione, tra realtà e possibilità. Ma il moderno è, più in generale, il tempo della separazione, diretta conseguenza delle divisioni innestate dalla scienza nel ‘500 e che riconosce nella meditazione cartesiana il riferimento non solo simbolico. Su questa base, tutto viene sottoposto al vaglio di razionalità autoreferenti che non sono per definizione contenute nell’ordine ereditato dalla storia. Il mondo moderno (dice Coleman[7]) deve essere ricostruito razionalmente: dunque, le gerarchie precedenti vanno messe alla prova, decostruite, costrette a giustificarsi. Tuttavia, la modernità non è il regno della fluidità perché propone proprie rigidità e propri criteri di ordinamento: oltre la separazione delle sfere, la costruzione di ordinamenti sociali razionali (e dunque rigidi) in ciascuna di esse, la delega ad automatismi, la riduzione della complessità che in precedenza alimentava il mondo della vita.
Paradossalmente, però, la modernità è segnata dal progressivo emergere di una crisi nella certezza della dicotomia fondamentale: quella fra “realtà” e immaginazione. Sotto questo profilo, potremmo dire che il meccanismo schiacciasassi della modernità, macchina per la produttività che deresponsabilizza gli attori e depotenzia la politica, nasce già con delle crepe, invisibili alla superficie, che minano irreparabilmente le fondamenta di quello Scientific Management che di essa è una delle espressioni estreme. Guardiamo ai testi fondativi della modernità. Il dubbio circa la struttura e la stessa consistenza ontologica del reale è al centro delle rappresentazioni teatrali che Shakespeare crea in Inghilterra sul finire del sedicesimo secolo e nei primissimi anni del diciassettesimo; caratterizza in Spagna la nascita del romanzo con il Don Chisciotte, apparso pochi mesi prima del Re Lear, nel 1605; induce Galileo a leggere il linguaggio matematico in cui è scritto il “grandissimo libro” della natura, confutando, nel Discorso sui massimi sistemi, che è del 1632, la concezione aristotelica del mondo sia pure, cautamente, come “pura ipotesi”, mentre il poeta Calderon della Barca proclama, senza mezzi termini, che “la vita è sogno” nel 1635; provoca la fondazione del nuovo metodo filosofico del francese Cartesio, che pubblica il proprio Discorso nel 1637. Si capisce dunque come mai questo periodo vede la straordinaria fortuna di concezioni politiche basate sul confronto con il “non luogo” introdotto da Tommaso Moro sul modello della Repubblica platonica un secolo prima, con intuizione anticipatrice, ma che solo adesso è visitato da molti illustri viaggiatori: basti citare la Città del Sole di Campanella, del 1623 o la Nuova Atlandide di Bacone, pubblicata postuma nel 1627.[8]
La spaccatura fra approccio umanistico e scientifico, che si approfondisce nel corso dei secoli, fino a divenire un baratro, dipende in ultima istanza dalla risposta offerta all’interrogazione sulla consistenza ontologica della realtà. Tale processo corre parallelamente alla separazione – sancita dal dibattito metodologico sviluppato dallo storicismo tedesco – fra le scienze della natura e le scienze dello spirito, con la correlata indicazione di modi diversi di produrre da parte delle due tipologie scientifiche generatrici di conoscenza, contemporaneamente premessa e conseguenza delle separazioni intercorrenti nella prassi organizzativa del moderno: una distinzione che si ispira al bisogno di definire le condizioni della conoscenza e di fornire garanzie ad una sua validità.
Le scienze della natura saranno caratterizzate da risultati di superiore oggettività e dal loro operare attraverso processi cognitivi di tipo causale. Le scienze dello spirito saranno caratterizzate da un coinvolgimento più personale del ricercatore e dall’essere basate sul meccanismo cognitivo della comprensione. Ma la comprensione, essenzialmente un processo empatico, è un procedimento che indica, attraverso la caduta della separazione tra le scienze della natura e le scienze dello spirito, uno statuto epistemologico nuovo, caratterizzante la cultura contemporanea, tale da consentire “di uncinare quel ‘secondo livello’ della realtà che può sfuggire a procedimenti iperrazionalistici”. [9]
Il cammino che porta a questo risultato è tuttavia lento, non privo di contraddizioni, fermate e ripartenze. Il matematico e filosofo Alfred North Whitehead in Science and the Modern World, 1925, mostrava le profonde connessioni che legano storia della scienza e storia dei movimenti letterari. Ancora nel 600-700 la maggior parte dei poeti, non diversamente dagli astronomi e dai matematici, erano giunti a vedere nell’universo una macchina, docile alle leggi della logica e suscettibile di un’interpretazione razionale: a Dio era affidata la parte dell’orologiaio di cui l’orologio postula l’esistenza. Questa concezione si estendeva anche alla società: per Luigi XIV come per la Costituzione americana, un sistema planetario, un meccanismo perfettamente regolato. Per dirla con la celebre immagine di Koyrè, erano le estreme conseguenze dell’ingresso dell’uomo, avvenuto nel Rinascimento, dal mondo del pressappoco all’universo della precisione. Da lì in poi, chiosa De Masi, “la precisione sarà tutto”.[10]
Con lo stesso spirito di lucida razionalità si esaminava la natura umana, alla ricerca delle sue leggi. I teoremi di Newton trovavano dunque un equivalente nei capolavori del ‘classicismo’: i drammi geometrici di Racine, gli armoniosi distici di Pope. Ma con il passare del tempo l’idea di un ordine meccanicistico prestabilito, agli occhi dei poeti come degli scienziati, inizia ad apparire una costrizione. Perché esclude una parte troppo grande della vita; o meglio offre, della vita, una immagine che non corrisponde all’esperienza reale. Il romanticismo appare così reazione contro un certo modo di intendere la ricerca scientifica. Ci sono aspetti dell’esperienza che non si possono spiegare in base alla teoria di un mondo perfetto, regolato come il meccanismo di un orologio. L’universo non è una macchina. E’ un sistema più complesso, più misterioso, meno razionale.
Poe vive e scrive in questo momento. Comte pubblica nel 1830 il Course de philosophie positive, George Boole nel 1847 presenta il suo sistema di notazioni logico-formali, teso a permettere il “calcolo del pensiero”. Nel ’39 Darwin pubblica il Naturalist’s Voyage round the World. (Poe aveva pubblicato un anno prima il Gordon Pym, che è un romanzo di avventura. Ma sia Darwin che Poe, scienziato e poeta, avevano tratto spunto e ispirazione dal Voyage towards the South Pole del capitano Weddel, che nell’estate 1822, nei mari del Sud, aveva raggiunto luoghi mai prima toccati dall’uomo).
Ma Abbott Lawrence, che non si limitava a dirigere le proprie fonderie, poichè finanziava anche l’Università di Harvard, era insoddisfatto. L’ateneo era saldamente in mano ad intellettuali di tipo tradizionale; le scienze – la fisica e la chimica – erano disprezzate. Tantomeno c’era spazio per l’insegnamento di arti e mestieri. E allora, siamo ancora nel 1847, Lawrence (esponente di quella America che ha il suo eroe in Benjamin Franklin, scienziato esimio, ma anche uomo d’affari) scrive al tesoriere dell’Università: ”Dove dobbiamo mandare coloro che intendono dedicarsi alle applicazioni pratiche delle scienze?”
Harvard resiste alle sollecitazioni. Un gruppo di imprenditori ed intellettuali decide allora di dare vita ad una nuova istituzione. Il motto, presto trovato, esprime bene gli obiettivi: ”Mens et Manus”, ‘mente e mano’. Manca però ancora un nome adatto ad indicare la novità dell’approccio. A proporlo sarà Jacob Bigelow, conferenziere eterodosso, da anni sostenitore delle Applications of Science to the Useful Arts. Bigelow propone una parola che già il greco antico conosceva. Technología significava ‘trattato relativo ad un arte’ (techne - che deriva probabilmente dalla radice indoeuropea tek -, ‘fabbricare’ – significa ‘arte’, ‘mestiere’; e logos ‘parola’).[11]
Nasce così nel 1865 il Massachusetts Institute of Technology. E si afferma un atteggiamento: le nuove opportunità di sviluppo industriale andranno cercate più che nell’ambito dei mestieri tradizionali, nelle nuove frontiere aperte dalla scienza. Così, dal lavoro di laboratorio, non più riservato ad eleganti ed astratti esperimenti, tra il 1880 e il 1920 sorgono l’industria elettrica e quella chimica. Seguiranno poi quella elettronica e quella nucleare. La scienza razionale e positiva trionfa, ma mostra i suoi limiti, quando conferma che vi è separazione netta fra Reale ed Immaginario: anche se, a differenza di quanto avveniva nel Medioevo, punta tutto sul primato della “realtà” terrena, fondato sulla capacità di dominare la natura con la tecnologia.
Arte e filosofia tenderanno invece sempre più a considerare il mondo come un inestricabile enigma, una “follia”, perdendo via via la speranza di cavare un significato all’esistere dell’uomo, sia che lo collochino nell’ambito di un sogno divino, alla Berkeley, o di un incubo della Volontà, come Schopenauer. La situazione peggiorerà ulteriormente dopo che Nietzche avrà decretato il trapasso del Sognatore. Si moltiplicheranno i Musil, i Kafka, i Joyce, i Picasso, tutti interpreti di un’esistenza umana ridotta ad un’indecifrabile visione onirica sorta nel sonno della morte di qualsiasi Dio. Concezione cui d’altro canto ha contribuito anche l’esplorazione del mondo subatomico da parte dei fisici a partire dai primi decenni del Novecento. Si è prodotto così un riavvicinamento fra scienza e arte, basato sulla comprensione che ci sono terre e mari incogniti, intorno a noi e dentro di noi.
Oggi sempre più forte si avverte la necessità di superare i travagli conseguenti al diffuso senso di inadeguatezza e di insicurezza per la dissoluzione di senso e unità del mondo – l’entropia-kipple da cui è ossessionato P.K. Dick[12] -. A tal fine occorre rinnovare l’ideale prettamente umanistico di un uomo che responsabilmente e liberamente si autodetermina, ricomponendo i frammenti della propria caleidoscopica identità attraverso un continuo processo di dialogo con sé stesso, ma anche con e “per” [13] gli altri; di riflessione sui propri mezzi e sui propri fini, pur nella consapevolezza che la logica ci costringe ad una visione parziale delle cose. Come l’Amore celebrato nel Simposio, dono integrale di sé all’altro “che contribuisce a superare la distanza fra gli uomini, in modo che il Tutto sia in se stesso ordinato e unito”, così la conoscenza richiede, scriveva Platone nella VII Lettera, “una lunga convivenza e un comune lavoro intorno ad essa”. E’ un cammino che deve essere spesso ripetuto “in salita e in discesa” fino a quando “scaturisce la scintilla e si accende il fuoco nell’anima del compagno” (341 C). Lapsus, coincidenze, intuizioni ci portano oltre la ragione “scientifica”. In quei territori in cui si muovono a loro agio, prima di ogni altro, i poeti.
[6] Circa l’influenza dell’Illuminismo sulle caratteristiche della modernità cfr Maggio.
[7] Coleman, 1990.
[8] Minghetti, 1987.
[9] Varchetta, 2003.
[10] De Masi, 1998/1999.
[11] Cfr. F. Varanini, L’applicazione pratica delle scienze, in Personae, n. 4 2003.
[12] Cfr Do androids dream of electric sheeps? In modo non dissimile, centrale in Shakespeare è quella che Girard definisce “crisi del Degree”, dell’armonia, basata sul riconoscimento di un ordine differenziato che riempie di senso ogni singolo elemento del quadro. Per questo “seguendo la lezione di Shakespeare, possiamo scoprire come ricostituire il Degree anche nelle nostre aziende”, Minghetti., 2002, pag. 71.
[13] Jonas, 1993.
L’illustrazione L’incantamento di Titania è di Stefano Faravelli
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