Settima Variazione. L’identità è doppia, tripla, quadrupla, multipla come le vite che ciascuno di noi sperimenta. La gente cerca una vita che negli Stati Uniti chiamerebbero “bicoastal”, con l’abitazione sulla sponda di un Oceano e il lavoro sulla riva di un altro, o, meglio, una professione diversa per ogni giorno della settimana. Prevale la metafora del telecomando. Uno zapping esistenziale.
Nel moderno, l’identità corrispondeva a un personaggio da romanzo, con una vita monotona o con una vita complessa, con evoluzioni nella percezione di sé. La vita poteva essere monocorde o molto orchestrata e variata ma comunque una; così l’identità, semplice o complessa, era una. Il dottor Jekyll sdoppiato in Mr Hyde era ancora considerato un mostro, la schizofrenia un disturbo della personalità. La doppiezza, la molteplicità, provocava lo stesso stupore del Duca Orsino di fronte all’immagine di Sebastiano: “Uno stesso volto, una stessa voce, uno stesso portamento, e due persone/ Una prospettiva naturale, qualcosa che è, e insieme non è”.[23]
Nella contemporaneità, l’identità da una parte è caratterizzata da un eccesso della figura dell’ego; l’individuo riemerge in ogni dove, “contaminato” da una cultura diffusa del narcisismo: il punto di vista, col quale e dal quale si misurano le diverse realtà, è quello interno soggettuale. Oggi lo “humanistic manager” deve essere consapevole che le persone desiderano vivere non più una sola vita (cioè una sola storia) ma tante storie e tante vite insieme. E’ la metafora del telecomando. Ciascuno desidera vivere insieme tante esperienze quanti sono i canali televisivi e saltare dall’una all’altra vedendole tutte.
Dall’altra, proprio per questo, la persona vive una condizione di endemica instabilità: l’identità è in continua riproposizione, frammentata in appartenenze diverse, spesso sovrapposte, talvolta contraddittorie[24]. Nel nostro tempo, “nella modernità liquida, le ansie, i dolori, i sentimenti di insicurezza provocati dal ‘vivere in società’ hanno bisogno di un paziente e costante lavoro di interrogazione della realtà e di come i singoli si ‘posizionano’ in essa”[25]. Siamo di fronte a una sperimentazione continua, quotidiana, di un trapasso epistemologico dalla scoperta all’invenzione: “la identità ci si rivela unicamente come qualcosa che va inventato piuttosto che scoperto”[26]. E’ un qualcosa, l’identità individuale, che si intravede da lontano come il traguardo di uno sforzo quotidiano, da costruire dalla base o da scegliere tra diverse alternative. Di fronte al lento ma inarrestabile processo di de-strutturazione delle istituzioni, di fronte alla rivoluzione esperienziale rispetto al tempo e allo spazio, si sperimenta l’identità “principalmente, come compito”[27].
In questo senso, oggi l’identità dell’uomo è quella dell’autore o del regista, laddove nel moderno essa era quella di un personaggio e nel postmoderno si era frammentata in tanti personaggi in cerca di autore.[28] Questo passaggio, a livello individuale, è alimentato da una emergente esigenza di vivificare con la forza dell’immaginario una esperienza quotidiana altrimenti banale, per sfuggire agli orizzonti ristretti entro cui sarebbe confinata la nostra vita. Lo ha spiegato bene Remo Bodei, quando ha sostenuto che “le fiabe, i romanzi, le poesie, i libri di storia, i racconti di viaggio, il teatro, il cinema, la televisione o internet ci stanano dalla chiusura in noi stessi, attivano germi che sono in noi in forma latente, spalancano nuovi mondi, inoculano idee, passioni, sensazioni che altrimenti ci resterebbero precluse…. Oggi è enormemente aumentato il peso della letteratura, dei media e delle arti visive, con l’offerta di un repertorio più vasto e articolato di vite e di esperienze. Del resto, già Madame de Staël aveva affermato che ormai non proviamo nulla che non ci sembri di aver già letto da qualche parte.[29] Con il diffondersi dell’alfabetizzazione e dei mezzi audiovisivi (accessibili anche agli analfabeti) il catalogo delle vite parallele accessibili all’immaginazione coinvolge attualmente miliardi di persone… È possibile salvare il senso della realtà dal rischio della sua dissoluzione nella fantasia?… La salvezza non consiste nel rifiutare l’esperienza dell’irrealtà, nel cercare l’immunità dalla fantasia e dal desiderio. L’ideale sarebbe – come in un pianoforte – suonare con la destra, in chiave di violino, la tastiera della realtà, più melodica e continua, e, con la sinistra, in chiave di basso, quella dell’immaginazione, che rappresenta l’accompagnamento necessario, l’integrazione complementare alla realtà.”[30]
Giù i confini e le definizioni, si diceva. Spesso si ha la sensazione, di fronte alla caduta dei diversi punti di riferimento, che l’identità diventi una costruzione a mosaico, “un puzzle dalle soluzioni difficili e mutevoli”[31]. La consapevolezza conclusiva è che il lavoro di costruzione dell’identità non parte da un’immagine ideal-finale alla quale tendere, esso è invece “orientato ai mezzi”[32]. In altre parole, si va avanti con quello che si ha, meno orientati da un processo idealizzato e idealizzante e più dalla disponibilità mercatistica “di pezzi di cui sei già entrato in possesso o che ti sembra valga la pena di possedere”[33].
Allora, forse, più che la musica per pianoforte suonata da Bodei, il palinsesto dovrebbe diventare l’archetipo della vita più desiderata. Quella in cui tutto è significativo perché la cosa importante non sono i singoli programmi, ma il montaggio che il singolo produce delle sue esperienze. Ciò è coerente con quanto segnalato dai più recenti studi sociologici: l’emergere di un “mindstyle”, quello della ricerca di competenze distintive, ovvero della esplorazione di nuove dimensioni della propria personalità.[34] La controprova è offerta dallo straordinario successo che stanno riscuotendo manifestazioni un tempo elitarie non solo come le Rassegne letterarie a Mantova o del cinema a Venezia, ma addirittura come le “lecturae Dantis” che si stanno moltiplicando a Milano e in tante altre città italiane.Mostre di Picasso, Chagall o Klee richiamano ovunque folle di giovani e meno giovani. E’ sufficiente che a Roma si propongano concerti di musica sperimentale o a Modena si faccia un Festival della filosofia per assicurarsi un immediato successo di pubblico. Giornali e riviste riescono a sostenere le vendite oramai unicamente grazie ai gadget: che sempre più spesso sono volumi di poesia, nuove edizioni di romanzi moderni e contemporanei, monografie dedicate alla pittura o alla fotografia, cd di musica classica o jazz, videocassette o dvd dei film di maggior successo, che non necessariamente sono quelli basati sugli effetti speciali o sulla violenza gratuita. Gli “effetti speciali” di cui le persone hanno oggi bisogno attengono a dimensioni interiori, emozionali, profondamente significative.
Una bella sfida per le aziende che si ritrovano ad avere questi signori come clienti e nello stesso tempo operano integrando nelle organizzazioni i vissuti dei cittadini di quella che Javier Echeverrìa ha chiamato Telepolis, “la nuovissima città mondo” telematica, superamento della metropoli funzionale di Le Courbousier e della post-moderna Las Vegas. “Nella sua fase rudimentale, Telepolis era fatta di comunicazioni telefoniche e radiofoniche; poi vi si è aggiunta la televisione non interattiva…ora finalmente si profila la televisione interattiva, si diffondono Intenet e la posta elettronica, i teleschiavi conquistano la parola e Telepolis viene interiorizzata dai suoi cittadini planetari”.[35] Ecco quindi che strumenti come la televisione o il Wold Wide Web non sono metafore o tecnologie o modalità di comunicazione. La tv interattiva, digitale, la convergenza tra gli strumenti di comunicazione sono modelli, rappresentazioni di schemi mentali già metabolizzati dall’uomo nel pensiero contemporaneo. Si deve prendere atto del fatto che la convergenza è un dato della realtà che viviamo attualmente. Tutti cercano la convergenza tra bisogni diversi, tra identità diverse, immaginando di poter essere nello stesso tempo tante persone diverse. Una unità molteplice.
D’altro canto, sotto la spinta delle nuove tecnologie, tale processo rischia di tramutarsi in vera e propria frammentazione, in particolare in relazione allo sviluppo del virtuale, che consente la coesistenza di realtà alternative, tutte altrettanto “vere”, nelle quali i meccanismi percettivi sono in qualche modo modificati rispetto alla realtà “reale. La caratteristiche salienti di queste identità contestuali sono due.
In primo luogo, le differenti identità con cui ci mettiamo in gioco hanno in genere carattere di parzialità, nel senso che nessuna di esse sembra rappresentarci integralmente. Anche a livello sensoriale si tratta di identità, per così dire, diminuite o schermate. Pensiamo al modo in cui siamo identificabili in un ambiente di comunicazione virtuale, come una chat. Per quanto evoluti, tali ambienti non consentono una piena mobilitazione di tutti sensi: ne privilegiano alcuni a discapito di altri. Ne risulta pertanto alterato il meccanismo di regolazione percettiva, in base al quale misuriamo dimensioni, distanze, intensità e rapportiamo la nostra identità a quelle altrui.
In secondo luogo, due identità alternative possono essere mutuamente contraddittorie. Un classico, in questo senso, è la confusione di genere (maschile al posto di femminile, e viceversa), a cui fanno ampio ricorso gli utenti degli ambienti di comunicazione online. Il mascheramento e lo spiazzamento dell’interlocutore sono fra l’altro strumenti difensivi che l’individuo utilizza per accrescere i propri margini di libertà. E in questi casi il ricorso agli avatar (rappresentazioni grafiche che identificano la presenza e la posizione di un utente nel mondo virtuale) non fa che aumentare l’effect du réel.
L’autorappresentazione plurivoca ha effetti evidenti – in taluni casi devastanti – sui meccanismi organizzativi tradizionali. Eccone alcuni:
a) proliferazione di sotto-identità collettive e informali (es. comunità di pratiche, gruppi di discussione) che si sovrappongono alla funzione identificatrice dell’organigramma e talvolta la mettono in crisi;
b) parziale disinvestimento identitario del singolo rispetto all’organizzazione, scarsa disponibilità alla mobilitazione e crescita del sentimento di disincanto nei confronti dei simboli e dei riti aziendali (de-identificazione);
c) maggiore conflittualità interna;
d) maggiori difficoltà nell’esercizio della leadership e nella gestione dei contesti negoziali (alla proliferazione delle identità, infatti, non corrisponde necessariamente un miglioramento della comunicazione organizzativa).
Se questi sono i rischi connessi alle nuove tecnologie della comunicazione e dell’informazione, al tempo stesso esse offrono ad ogni autore la possibilità non solo di avere una maggiore libertà di scelta (“se ama il calcio può andare allo stadio o vedere la partita in tv; se ama il cinema può vedere la videocassetta o andare al cinema; se ama la natura può partecipare a un safari o può vedere una trasmissione di geografia”[36]), ma anche di rendere più profondo e articolato il controllo del proprio modello espressivo. Pensiamo a Omero: avendo a disposizione una memoria elettronica, il modello compositivo fondato sul montaggio di blocchi standard avrebbe potuto essere portato a più alti livelli di complessità e tutte le possibilità combinatorie teoricamente previste dal modello avrebbero potuto essere esplorate. Pensiamo a Dante: ogni rima teoricamente possibile a partire da un dizionario dato avrebbe potuto essere tentata (e sarebbe rimasta all’autore la scelta delle occorrenze da inserire nel testo). E pensiamo a Proust: la meravigliosa capacità di costruire un sistema sarebbe stata enormemente potenziata dalla memoria elettronica: si pensi alla possibilità nel momento in cui l’autore scrive, di avere sottomano, attraverso un’operazione selettiva operata con assoluta precisione dalla macchina, tutte le informazioni su quel personaggio, o su quella situazione, già inserite nel testo.
E questo non viola l’autonomia dell’autore: ogni autore resta se stesso, libero di ‘chiudere’ il testo come vuole: ovvero di comprendere, o di escludere, materiali narrativi e piste di lettura. Insomma: usando un word processor Omero Dante e Proust si sarebbero trovati a disposizione una più vasta gamma di materiali coerenti con il loro progetto, un repertorio più vasto di collegamenti tra gli elementi, senza che ciò venisse a togliere loro la facoltà di scegliere, confezionando una redazione finale, alcuni materiali, alcuni collegamenti.
Vale l’analogia: come l’autore vede potenziata dall’information technology la sua autonomia creativa, altrettanto il manager. È il senso profondo di ciò che si chiama ‘Business Intelligence’: le informazioni e le conoscenze non più chiuse in procedure, ma plasticamente messe a disposizione del decisore. Del creatore di mondi. L’individualità, la multi-individualità, è in entrambi i casi incrementata dalla protesi tecnologica.
[23] “One face, one voice, one habit, and two persons;/ A natural perspective, that is, and is not” (Dodicesima Notte, vv. 218-291).
[24] Castells, 1997.
[25] Vecchi 2003, pag. VII.
[26] Bauman 2003, pag. 13.
[27] Bauman op. cit., pag. 17.
[28] “Il postmodernismo non può proporre nulla di simile, concentrato com’è sui tratti schizofrenici del soggetto, determinati dalla frammentazione e da tutte quelle instabilità che impediscono tanto di rappresentare un futuro radicalmente diverso,quanto di individuare strategie per il futuro”. E, Maggio, cit.
[29] E, prima di lei, potremmo aggiungere, Cartesio nel Discorso sul metodo.
[30] Bodei 2003.
[31] Vecchi 2003.
[32] Bauman 2003.
[33] Bauman op. cit., pag. 56.
[34] Morace, 2003.
[35] De Masi, 1988/1999.
[36] Idem.
L’illustrazione Sogni di Tigre è di Stefano Faravelli
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