Terza Variazione. Ai nostri giorni, il problema della commistione fra realtà e immaginazione appare ineludibile, essendo giunto al suo massimo livello di complessità: ma con i paradigmi manageriali classici non è possibile venirne a capo o anche solo comprenderne i termini.
Se ha ragione Whitehaed quando sostiene che la storia del pensiero occidentale è una mera serie di glosse ai libri di Platone, la riflessione sulla natura “immaginaria” del reale si colloca non solo al centro del “moderno”, ma alle radici stesse della cultura occidentale; se non ha torto Fritjof Capra, che nel Tao della fisica sostiene la sostanziale convergenza del pensiero occidentale con quello orientale, dobbiamo ammettere l’universalità di tale riflessione; se si concorda con chi, come Levy, identifica nel “virtuale” e nelle sue molteplici relazioni con il “reale”, l’“attuale” e il “potenziale” la connotazione tipica della nostra epoca, si impone la conclusione che la commistione di reale e immaginazione è un tema ineludibile.
Non sorprende perciò che, nel transito dal moderno alla contemporaneità, si è passati da un sostanziale discredito dell’immaginario, inteso come “non aderente al vero” e quindi “falso” e per ciò stesso “immorale”, a una sua valorizzazione. Se reale è “ciò che è in atto”, immaginario appare come “ciò che è in potenza” (l’attributo virtualecondivide la stessa radice del sostantivo latino virtus, che significa “forza, potenza”, appunto). Entrambi i termini esprimono quindi una realtà, ma il secondo appare più ricco, in quanto legato a una pluralità di ipotesi e possibilità. Ciò che è in atto non può che essere come è, mentre l’essere virtuale è – al tempo stesso – molteplice.
Peraltro la diffusione delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione ha reso disponibili nuove forme di rappresentazione di questa molteplicità di possibilità. Fare esperienza di realtà virtuali o realtà allargate è diventato un fatto molto concreto. Il virtuale dei nuovi media non è meno vero del reale, almeno dal punto di vista empirico. Non a caso si parla di realtà virtuale. La distinzione oggi più sensata è allora quella fra reale atomico e reale digitale.
Non bisogna quindi cadere nella trappola dell’estremizzazione, assai diffusa, per cui il virtuale si afferma unilateralmente: divenendo il linguaggio del nichilismo. L’immaginario così inteso è un mero rifugio contro l’angoscia: successo per tutti, glamour anche per gli emarginati (un’ora in una comparsata TV), abbigliamento filotropaico (che attrae magicamente la possibilità di avere un provino, un invito come valletta o ballerino di fila). In queste condizioni, difficile, sempre più difficile, risulta l’accesso al fattuale, che rischia di diventare la vera chimera dell’epoca contemporanea.
Mentre una prevalenza ontologica, per così dire, dell’immateriale è un evidente non senso, se non altro perché l’immateriale ha bisogno del materiale per concretizzarsi ed essere: vestiti, trucco, automobili, seconde case, apparecchi mediatici, patatine fritte… La dimensione immateriale attecchisce su una robusta base materiale, ma questa, progressivamente, viene data per scontata e dovuta. Woody Allen coglie il punto quando dice: “odio la realtà, ma è l’unico posto dove si può mangiare una buona bistecca”.
D’altro canto, caratteristica tipica dello Scientific Management è l’incapacità contraria di superare la prospettiva di un realismo ingenuo, cadendo nella tentazione opposta, meramente fattualistica – dare un valore determinante ai fatti; dare loro un significato univoco; “solo i fatti contano” – che è sempre presente e mai è attiva quanto davanti alla necessità di organizzare e rendere efficiente il lavoro umano.
La tentazione fattualistica riposa sulla convinzione della potenza di ciò che è dato, che esiste oggettivamente, per sé, quali che siano i modi e le ragioni del suo apparire, affermarsi, consolidarsi. Nulla di più illusorio. La natura ama nascondersi. Per comprendere la verità, le verità, occorre andare sotto la superficie dei fatti. I fatti possono, tutt’al più, essere sintomi, tentativi, esperimenti. I fatti propriamente sono “arte-fatti”. Dare consapevolezza della polivocità, dell’interpretabilità dei fatti è un fine decisivo dello humanistic management. Più che offrire o imporre un significato, il manager umanista apre nuovi orizzonti di significati possibili, agevolando la ricerca di una via originale alla percezione e alla conoscenza, scelta fra le molteplici vie percorribili.[14]
[14]Trupia, 2002.
L’illustrazione Disincanto di Titania è di Stefano Faravelli
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